Il periodo delle privatizzazioni aveva acceso molte speranze, confermate nel settore bancario, ma andate deluse in quello industriale. Un libro di Pietro Modiano e Marco Onado ripercorre con lucida analisi un lungo tratto di storia economica italiana.
Una storia economica dell’Italia dal secondo dopoguerra
Nell’introduzione al loro ultimo libro, Pietro Modiano e Marco Onado ricordano che il titolo “illusioni perdute” richiama un famoso romanzo di Honoré de Balzac, di recente ripreso in un film di Xavier Giannoli. Vi si narrano le ambizioni di un giovane letterato della provincia francese che si frantumano nella spietata e corruttrice società parigina, durante il periodo post-napoleonico della Restaurazione. “Come quel giovane” gli autori ammettono di aver “peccato di ottimismo”, ma poi aggiungono “i vecchi sogni erano bei sogni” citando qui un meraviglioso film di Clint Eastwood.
Il sottotitolo poi aggiunge: “Banche, imprese e classe dirigente in Italia dopo le privatizzazioni”, ma non fatevi ingannare: il libro è una puntuale e acuta storia economica dell’Italia che parte dal secondo dopoguerra. La prima parte tratta, infatti, con minuzia i principali problemi dello sviluppo economico italiano fino alla drammatica crisi del 1992. Questa data è considerata lo spartiacque fra il vecchio e il nuovo mondo, che darà l’avvio a una breve stagione di riforme con il governo di Giuliano Amato (giugno 1992-aprile 1993) e poi di Carlo Azeglio Ciampi (aprile 1993- maggio 1994).
In quel periodo fu avviato uno dei più vasti e ambiziosi programmi di privatizzazione del mondo occidentale con risultati confortanti nel settore bancario, dove “la foresta pietrificata” lasciò il posto, non senza qualche incertezza iniziale, a maggiore concorrenza e a un processo virtuoso di aggregazioni. Disastrosi furono invece gli esiti nel settore industriale, dove da Telecom ad Alitalia, dall’Ilva ad Autostrade, capitalisti senza capitali cercarono di accaparrarsi le rendite di posizione, puntando a continue svalutazioni e bassi salari come avevano fatto nei decenni precedenti per incrementare i profitti familiari.
Gli autori riprendono e aggiornano l’analisi fatta da Raffaele Mattioli secondo il quale “tutto il periodo dall’Unità d’Italia a questo secondo dopoguerra può in realtà configurarsi come una serie di occasioni e di tentativi di dare finalmente vita a una classe dirigente adeguata”.
Così, abbandonato il modello basato sulla diarchia pubblico-privato, negli anni successivi alle privatizzazioni, la grande impresa è praticamente sparita in Italia, la produttività del paese ha continuato a languire così come la crescita economica. La forza della nostra media impresa, pur ottenendo ottimi risultati all’estero, non è riuscita a supplire le deficienze di un paese dove hanno un peso straordinario le microimprese, che spesso vivono al margine dell’evasione fiscale e delle irregolarità. In questo contesto, le liberalizzazioni sul mercato del lavoro non hanno fatto che contribuire a creare bassi salari e lavoro povero.
L’adesione alla Ue e la bassa crescita
All’analisi impeccabile di Onado e Modiano, che in quegli anni hanno ricoperto ruoli apicali in Consob e nei principali istituti bancari, si possono muovere solo due osservazioni.
La prima è che sottovalutano gli effetti che quella stagione di riforme portò in termini di adesione all’Unione europea e stabilità monetaria. L’inflazione italiana in pochi anni venne agganciata a quella degli altri paesi europei, così come i tassi d’interesse, almeno fino alla crisi del 2007.
La seconda è che la bassa crescita italiana trova il suo complemento nella bassa crescita europea. Questo non solo se confrontata alla crescita del Sud Est-asiatico, ma anche degli Stati Uniti e perfino del Giappone. In altri termini, l’imperfetta costruzione europea allunga un’oscura ombra sulla crescita.
Oggi il governo Meloni ha annunciato un ambizioso nuovo programma di privatizzazione che in tre anni dovrebbe portare nelle casse dello stato l’1 per cento del Pil, pari a 20 miliardi di euro. Tuttavia, la grande stagione delle liberalizzazioni sembra essere lontana non solo in Italia.
L’ultimo rapporto del Fraser Institute, legato alla Banca Mondiale, mostra come la spinta alle liberalizzazioni economiche nel mondo si sia esaurita nei primi anni del XXI secolo e come nell’ultimo periodo la media mondiale dei rating delle libertà economiche sia addirittura drasticamente caduta. In questo contesto, l’Italia non è mai riuscita a entrare nel primo quartile dei paesi più liberi. Eppure, il rapporto mostra come i paesi economicamente più liberi siano i più ricchi in termini di Pil pro-capite, abbiano aspettative di vita più lunga, tassi di povertà più bassi e tassi di felicità più alti.
Figura 1 – Economic Freedom of the World 2023
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Savino
Ci sono pezzi di economia privatizzata che andrebbero nazionalizzati e altri pezzi di economica statale e pubblica che andrebbero privatizzati. Non c’è stato un criterio funzionale per privatizzare, ma solo un criterio di cassa. Nel frattempo, il mondo è cambiato e le esigenze e priorità sono diventate diverse.
Jacopo Tramontano
“il rapporto mostra come i paesi economicamente più liberi siano i più ricchi in termini di Pil pro-capite, abbiano aspettative di vita più lunga, tassi di povertà più bassi e tassi di felicità più alti.” Questa affermazione nasconde un’eterogeneità enorme tra i sistemi di capitalismo del primo quartile. La povertà negli USA è ben altra cosa rispetto a quella dei paesi scandinavi, o della Nuova Zelanda…
ANGELO
Ammetto che quando leggo un rapporto di un qualche istituto legato alla Banca Mondiale sono molto prevenuto. Quando poi nel rapporto si arriva a spiegare quali sono i paesi con “… tassi di felicità più alti” mi rendo conto che essere prevenuto è solo una necessità. Come diceva “Trilussa con i suoi polli” la statistica e i numeri non sono neutri. Sono sempre al servizio di chi vuole dimostrare qualcosa. Che quello che vuole dimostrare sia vero o falso è il più delle volte irrilevante.
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Ottimo Angelo
Ferrari Alberto
Concordo. Le privatizzazioni indiscriminate dei principali beni pubblici , tanto ben volute dal FMI, rispondono perfettamente al Washington consensus, ossia alla diffusione ” politica” del modello di neocapitalismo anglosassone ( vedere il libro “Capitalismo contro capitalismo di Michel Albert ed. dal Mulino) tanto giustamente criticato da Stigliz. Vi sono beni come la sanità la scuola le reti idriche elettriche dei trasporti su rotaia e od oggi di internet e della tutela dell’ambiente, che se privatizzati in modo indiscriminato, come impone il FMI ai paesi che gli chiedono prestiti, impoveriscono, con liberalizzazioni scriteriate, tali paesi in modo tale da distruggerli sotto il profilo della vita sociale e della democrazia. Occorre invece a mio parere tornare a ripensare a quel capitalismo sosociale di mercatro che ha rappresentato il vero punto forte del modello sociale europeo. E che purtroppo stiamo perdendo per un governo europeo fatto di soli tecnocrati e burocrati.
marcellus
cosa si dovrebbe privatizzare? i monopoli naturali. con il risultato chd é comune a tutti i paesi: un disastro. In Uk vorrebbero rinazionalizzare tutto dalle ferrovie all’energia…ma noi come gli gnu della grande migrazione del Mara seguiamo anche se sappiamo che é un suicidio sociale. non c’é nessuna giustificazione economica. pensate alla chimica all’acciaio semplicemente non esistono più. Ma un po’ di autocritica, tipo il Washington Consensus era una boiata pazzesca, no?
Gianfranco
Assolutamente in pieno accordo, ma purtroppo i soliti pifferai ricominciano a strombazzare a favore delle privatizzazioni a tutti i costi.