Lavoce.info

La flat tax si può fare

La flat tax non è di per sé incompatibile con il rispetto di severi vincoli di bilancio. E non è neanche vero che gli attuali livelli di spesa e dunque di prelievo siano intoccabili. Già nel 2017 una proposta mostrava i vantaggi dell’aliquota piatta. 

Il fiscal drag eliminato dalla flat tax

Il fiscal drag – l’aumento implicito della pressione fiscale dovuto all’effetto dell’inflazione – è una patologia inevitabile della tassazione progressiva. Lo riconoscono correttamente Marco Leonardi e Leonzio Rizzo nel loro intervento su lavoce.info, che ne ricostruisce l’entità e ne valuta il contributo al risanamento dei conti pubblici. Ne segue che “se tutti fossero sottoposti a flat tax, non esisterebbe fiscal drag”. 

A noi questo sembra un importante vantaggio della aliquota piatta, che non avevamo esplicitato nel progetto dell’Istituto Bruno Leoni “25% x tutti”, in cui si descrivevano le caratteristiche della flat tax, i costi della riforma e le modalità della transizione. Un progetto datato 2017 e cioè nel pieno di un decennio in cui lo spettro era, per molti, quello della disinflazione e non viceversa.

Leonardi e Rizzo, però, escludono la fattibilità di tale ipotesi, in quanto la flat tax potrebbe “far saltare il bilancio dello stato”. Per sostanziare questa affermazione, rinviano a un precedente intervento di Rizzo con Massimo Baldini, che discute delle proposte di flat tax presentate in campagna elettorale da Forza Italia e dalla Lega. La prima pone un’aliquota unica del 23 per cento a base personale, con una no tax area fino a 12 mila euro. La seconda, un’aliquota unica del 15 per cento a base familiare con una no tax area di 3 mila euro e un sistema di deduzioni e detrazioni. In entrambi i casi, l’applicazione del nuovo regime determinerebbe una significativa riduzione del gettito, che certo non si può immaginare compensata dalla (pur possibile) riduzione dell’evasione e dal (pur probabile) stimolo positivo sulla crescita.

Il progetto dell’Istituto Bruno Leoni

In questo senso, Baldini e Rizzo (e, attraverso di loro, Leonardi e Rizzo) hanno ragione: se mal disegnata, la flat tax scasserebbe i conti pubblici. Una affermazione – se è lecito – del tutto ovvia, che nasconde un giudizio di valore non generalizzabile. Semplicemente, non è vero che la flat tax di per sé sia incompatibile con il rispetto di severi vincoli di bilancio. Nel progetto dell’Istituto Bruno Leoni, per esempio, il minore gettito dell’Irpef veniva compensato in parte con una ampia riduzione delle spese fiscali (la cui funzione, nell’attuale sistema tributario, è proprio quella di spingere verso un appiattimento delle aliquote per specifiche categorie di contribuenti o di redditi); in parte con l’incremento di altre imposte, tra cui l’Iva, che verrebbero tutte allineate al livello del 25 per cento. E infine, in maniera sostanziale, attraverso una cospicua revisione della spesa pubblica. Secondo le stime effettuate all’epoca – che certo andrebbero riviste e aggiornate – il saldo da finanziare era attorno ai 30 miliardi di euro, meno di due punti di Pil dell’epoca: si tratterebbe di un aggiustamento fiscale del tutto paragonabile a quello adottato (anche se non pienamente realizzato) dal governo Monti nel 2011 e che avrebbe dovuto realizzarsi in un triennio (per un totale di circa 26 miliardi). O, per dare un altro parametro, si tratta di un taglio inferiore alla metà di quanto realizzato nel giro di pochi mesi da Javier Milei in Argentina (5 punti percentuali di Pil di minori spese).

Rivedere il perimetro di azione dello stato

È importante sottolineare che la riduzione del gettito non è un effetto collaterale della flat tax: è uno dei due obiettivi fondamentali di quella proposta di riforma (l’altro essendo la radicale semplificazione del sistema tributario e l’eliminazione delle distorsioni e degli arbitraggi indotti dalla giungla delle aliquote). Quindi la flat tax si sposa naturalmente con una revisione del perimetro dello stato, che non implica una mera azione di spending review (o di “taglio degli sprechi”), ma che obbliga a riflettere su quali attività lo stato debba svolgere. Quindi, sostenere che la tassa piatta è incompatibile con l’equilibrio di bilancio equivale ad affermare che la spesa pubblica è una variabile indipendente o, ciò che è lo stesso, che l’attuale livello della spesa italiana (nell’aggregato e nella sua distribuzione tra i diversi capitoli) è ottimale e incomprimibile. Ciò contrasta con l’esperienza di molti altri stati membri dell’Unione europea che pur dispongono di tutele e misure efficaci quanto e più delle nostre a vantaggio degli individui a reddito medio-basso. Detto in altri termini, che gli attuali livelli di spesa (e quindi di prelievo) siano intangibili non è una verità di fede. E che l’attuale struttura tributaria sia la migliore possibile è un’idea ancora più azzardata e conservatrice.

Resta un dubbio al quale è veramente difficile dare risposta. Dal momento che visibilmente Leonardi e Rizzo hanno a cuore gli interessi dei lavoratori dipendenti e dei pensionati (così come chi scrive pensa di avere a cuore gli interessi di tutti i contribuenti), che cosa li spinge a immolare il benessere di quei contribuenti sull’altare della progressività per scaglioni, laddove invece potrebbero salvaguardarlo accettando il principio della progressività per deduzione? La difesa del potere d’acquisto di dipendenti e pensionati dovrebbe prevalere sulla pura e semplice (e certamente legittima) conservazione dell’esistente.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Precedente

Perché la Pa arriva sempre tardi all’appuntamento con l’innovazione

Successivo

Sull’aliquota piatta restano molti dubbi

  1. Enrico

    Facciamo finta che non esista l’art. 53 della nostra costituzione (che prevede la progressività del sistema fiscale). Oppure supponiamo che un minimo di progressività si possa ottenere con una no tax area, aliquote IVA differenziate e sussidi ben calibrati. Anche il più ortodosso degli economisti ultraliberisti ammetterebbe che il modo meno doloroso e distorsivo per prelevare un tributo è quello di tassare proporzionalmente di più i più ricchi. È lo stesso principio adottato da qualsiasi responsabile del marketing per fissare i prezzi in base ai diversi segmenti dei consumatori. Non capisco perché invece uno stato debba rinunciare a questo approccio.

  2. alessandro cargasacchi

    Non sono un costituzionalista ma non mi sembra che tale articolo 53 significhi automaticamente aliquote a scaglioni. La questione è decidere quanto di più si debba pagare in base alla crescita del reddito.
    Anche la flat tax è progressiva perchè chi ha 1000 al 10% pagherà 100 e chi ha 10.000 pagherà 1000.
    Se le spese si rapportano alle entrate, queste ultime non possono scendere senza modificare le prime.
    Scelte politìche di prom’ordine, non c’è che dire.

  3. Paolo

    certo che si può fare, basta farla pagare a quel 40% di italiani che di irpef non paga nulla

  4. Il tema è divisivo ma cruciale 😉

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén