Nel mondo del lavoro globale sono molto diffusi i sentimenti di rabbia e di indignazione, che però non danno luogo a una reazione dei lavoratori. L’Italia ha un problema in più: una pressione fiscale che pesa soprattutto sulla classe media lavoratrice.
I lavoratori si sentono meno coinvolti
Nel mercato del lavoro contemporaneo si manifesta un apparente paradosso, confermato dai dati più recenti: la rabbia improduttiva. Lo State of the Global Workplace Report 2025 di Gallup rivela infatti che “l’engagement” globale dei lavoratori è sceso dal 23 al 21 per cento nel 2024, con un calo particolarmente significativo tra i manager, per i quali passa dal 30 al 27 per cento.
La diminuzione di due punti percentuali equivale al declino registrato durante l’anno dei lockdown da Covid-19, segnalando una crisi profonda che non dipende da shock esterni ma da dinamiche strutturali del lavoro stesso. Il dato globale del 21 per cento di lavoratori “engaged” significa che il 79 per cento della forza lavoro mondiale non è pienamente coinvolta in quello che fa – una maggioranza schiacciante che sperimenta disconnessione emotiva e psicologica dal proprio lavoro. Solo il 33 per cento dei lavoratori a livello globale si dichiara “thriving”, cioè in uno stato di pieno benessere, anche qui il peggioramento riguarda in particolare i manager. In Italia e in Europa la situazione è ancora più critica: il Vecchio Continente registra il più basso livello regionale di engagement al 13 per cento, con il nostro paese che si posiziona al 10 per cento, tra i peggiori del continente.
La rabbia, le ingiustizie e la lealtà forzata
Le emozioni rivestono un ruolo centrale nelle decisioni economiche. Il contributo di Antonio Damasio e la sua teoria dei “marcatori somatici” mostrano come gli stati emotivi, inclusa la rabbia, influenzino direttamente le scelte e i comportamenti complessi.
Nel contesto lavorativo, la rabbia nasce da percezioni di ingiustizia o violazioni di aspettative legittime e, in teoria, dovrebbe essere un segnale che induce all’azione correttiva. È, in sintesi, un segnale cognitivo che comunica alla persona di trovarsi di fronte a un’ingiustizia.
Anche l’economia comportamentale evidenzia come bias emotivi e autoinganni condizionino negativamente le decisioni economiche e sociali nel lavoro. Il concetto di “costi di transazione psicologici”, applicato alla dimensione emozionale, descrive come ansia, stress e risentimento ostacolino l’azione collettiva e individuale e producano costi nascosti. Il modello del 1970 Exit-Voice-Loyalty di Albert Hirschman rimane valido: se non ci sono possibilità reali di uscita o protesta, nasce una lealtà forzata che si manifesta in risentimento cronico.
Il risentimento non gestito influisce negativamente sulla produttività: Gallup 2025 stima che il calo dell’engagement globale abbia comportato una perdita di 438 miliardi di dollari di produttività a livello mondiale nel 2024. Studi recenti su aziende che hanno adottato politiche di trasparenza salariale e di maggiore comunicazione mostrano riduzioni del turnover fino al 30-40 per cento e incrementi significativi dell’engagement e della fiducia interna. Le organizzazioni devono creare un “campo protetto” dove i conflitti possano essere discussi senza timore di ritorsioni, le attribuzioni corrette grazie alla trasparenza e la voice resa effettiva e credibile. Lo spazio di discussione interno all’azienda è orientato ad affrontare le distorsioni emotive e le errate attribuzioni alla base della rabbia, così individuando in modo preciso le origini delle ingiustizie percepite e permettendo di affrontare i conflitti e trovare correttivi.
Perché i dati italiani sono preoccupanti
I dati Gallup evidenziano per l’Italia dati preoccupanti. Pur con un aumento di due punti, la percentuale degli occupati che si dichiara “engaged” è al 10 per cento (al 28° posto su 38 paesi in Europa), al 5° posto per stress percepito (49 per cento ha vissuto una giornata molto stressante nel giorno precedente alla rilevazione) e tristezza (21 per cento). La rabbia, invece, è scarsa e in diminuzione (9 per cento, al 33° posto su 38 in Europa).
La crescente complessità delle catene globali del valore, l’aumento degli intermediari come piattaforme digitali e agenzie e la finanziarizzazione aziendale rendono sempre più opaca l’identificazione delle responsabilità sulle condizioni lavorative contestate. A livello sistemico la percezione di ingiustizia dipende da fenomeni complessi che sono più difficili da comunicare e interiorizzare, come la sperequazione nel carico fiscale che colpisce più che proporzionalmente la classe media, oppure la sempre più forte preferenza degli investitori italiani verso i rendimenti da dividendi, anche a scapito della cosiddetta “crescita per innovazione”. Il Bollettino statistico n. 26 della Consob (giugno 2025) evidenzia che le imprese italiane mantengono la tendenza a privilegiare la remunerazione degli azionisti rispetto alla tutela del lavoro (che ha impatto in logica redistributiva) e in R&D (che ha effetti su innovazione e produttività). Nel 2024 si vede forse un’inversione di tendenza, ma potrebbe essere troppo tardi: il rapporto di distribuzione dei dividendi (Dividend Payout Ratio) nel 2023 era al 64,2 per cento, nel 2024 al 56 per cento. Il tasso di rendimento azionario (Dividend Yield) medio si è mantenuto intorno al 4,2 per cento. Ma per le società quotate nel mercato di crescita Egm (Euronext Growth Milan, un mercato azionario italiano gestito da Borsa Italiana e dedicato alle piccole e medie imprese italiane ad alto potenziale di crescita) il payout ratio è salito al 77,7 per cento, con un dividend yield di circa l’1,6 per cento, contro investimenti in R&D pari solo all’1,4 per cento del Pil, quando la media Ue è del 2,3 per cento (Eurostat 2024). Il comportamento orientato al breve termine delle imprese si sposa con una pressione fiscale che pesa soprattutto sulla classe media lavoratrice. I dati di Itinerari Previdenziali del 2025 evidenziano che il cosiddetto “fiscal drag” (effetto dell’inflazione su scaglioni non indicizzati) ha aumentato il carico fiscale in modo più significativo proprio sui lavoratori dipendenti, con un aumento stimato delle tasse aggiuntive del 17,8 per cento per gli operai e del 21,8 per cento per gli impiegati rispetto al 2022, con un aggravio di centinaia di milioni di euro solo per queste categorie. La fascia media (reddito da circa 20mila a 50mila euro) sostiene gran parte del gettito Irpef, con il 46,5 per cento dei contribuenti che dichiara redditi sopra 20mila euro, contribuendo per quasi il 94 per cento del gettito Irpef, mentre le fasce più basse pagano sempre meno. La pressione fiscale sproporzionata sulla fascia media ha generato fenomeni di compressione della fascia stessa, con ricadute negative sul reddito netto disponibile e sul potere d’acquisto, comportando una possibile contrazione dei consumi e rischi per la sostenibilità del welfare.
Nonostante le evidenze della congiuntura economica che da più di tre decenni segnalano un allargamento delle disuguaglianze e la compressione della classe media, il sentimento di rabbia e di indignazione sembrano dislocati rispetto alle cause. Studi psicologici sul fundamental attribution error confermano che i lavoratori tendono a sovrastimare cause interne (disposizionali) rispetto a fattori sistemici o strutturali, alimentando attribuzioni errate ed emozioni improduttive: in questa tendenza i lavoratori intesi come gruppo o come classe non intraprendono azioni correttive di contrasto all’ingiustizia.
La rottura del patto tra imprese e lavoratori
La percezione emotiva dell’ingiustizia potrebbe dunque dipendere dalla rottura del patto tra imprese e lavoro e dal diffondersi un approccio estrattivo nel management orientato più a produrre valore per gli azionisti (e per sé stessi) nel breve termine, che nel pianificare sviluppo e crescita. Anche la retorica del merito si scontra con dinamiche sociali che aggravano le disuguaglianze, laddove per l’accesso alle posizioni più prestigiose e remunerative – o anche solo a posizioni che permettano di valorizzare e vedere riconosciuto il proprio contributo al bene comune – il gioco è truccato a favore di chi ha capitale economico, culturale e sociale. Si generano così risentimento e rabbia, che non sanno trasformarsi in sentimento collettivo (indignazione) e in proposta politica.
La trasparenza aiuta
Sono dunque auspicabili interventi pubblici per contrastare il risentimento diffuso. Per esempio, l’obbligo di trasparenza retributiva ha dimostrato di ridurre disuguaglianze e bias informativi, contribuendo a un clima di fiducia e giustizia nei luoghi di lavoro. Recenti studi indicano che tali misure sono efficaci nel diminuire il gender pay gap fino al 40 per cento. Inoltre, politiche di welfare e supporto psicologico mitigano i costi psicologici del risentimento, facilitando la partecipazione attiva e migliorando gli esiti lavorativi.
L’epoca del risentimento nel mercato del lavoro non è solo un fenomeno culturale o psicologico, ma il risultato di fallimenti strutturali nella funzione correttiva delle emozioni. Opacità strutturali, bias cognitivi ed emotivi e la dislocazione delle ragioni dell’ingiustizia verso bersagli di comodo trasformano la rabbia in risentimento improduttivo, con costi elevati per organizzazioni e società. La soluzione non risiede nella repressione emotiva (presente, ad esempio, anche nella retorica della resilienza), bensì nella costruzione di istituzioni e pratiche che permettano alle emozioni di svolgere la loro funzione informativa e coordinativa, recuperando così efficienza allocativa, benessere lavorativo e policy orientate alla promozione della giustizia.
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Savino
E’ inevitabile questo clima di frustrazione, laddove non esista meritocrazia sin dal momento dell’assunzione, nonchè per ogni inquadramento professionale sulla base dei titoli in possesso e delle inclinazioni e per ogni tipo di scatto di carriera. Nel nostro mercato del lavoro si è sempre andati avanti scartando e degradando i migliori e le scelte sono sempre andate tutte in favore di chi ha voluto la politica, il sindacato, la corporazione professionale, il cerchio magico elitario. Non solo c’è il risentimento, ma ci sono anche le ripercussioni sulla produttività, essendosi fidati dall’alto delle persone sbagliate e meno serie ed avendo riposto malamente su di esse tutte le aspettative, con conseguente perdita di credibilità.
Max
Forse questo può essere il problema per le posizioni apicali (es. manageriali), soprattutto nelle grandi imprese pubbliche. Nella miriade di piccole e medie imprese (PMI) private, non credo la “politica” conti molto. Probabilmente conta di più la mancanza di lungimiranza e strategia, o le oggettive difficoltà che tali imprese soffrono in un panorama di mercati sempre più concentrati. Queste evidenze non dovrebbero certo sorprendere, alla luce del trattamento fiscale (e non) di sfavore che viene riservato al lavoro dipendente, con posizioni spesso sottopagate rispetto alla media europea (anche considerando il costo della vita). La retribuzione non è tutto, ma, se è interpretata come riconoscimento del contributo dato dal lavoratore all’impresa, sicuramente aiuta l'”engagement”. In Italia cresce spesso molto di più l’inflazione dei salari….
Anselmo
Si può quindi dire che pur investendo poco sul personale e in ricerca e sviluppo le aziende riescono a generare un ritorno soddisfacente per gli azionisti? Ossia in un ottica di breve periodo e in funzione del volume (modesto) di investimenti il ritorno si può considerare soddisfacente?
La domanda che sorge spontanea è: perchè dovrebbero cambiare?
Valentina
Ero molto soddisfatta del mio lavoro, ma dopo il Covid ho visto succedere questo nella mia azienda: i dipendenti hanno lavorato molto di più nell’ottica di superare il momento di crisi, l’azienda ha prodotto risultati eccezionali e extraprofitti (supportata anche da generosi finanziamenti e contributi statali). Gli utili eccezionali realizzati sono stati distribuiti fra i soci, ai dipendenti zero euro. Dal lato dipendente, quindi, più lavoro, meno stipendio visto la tassazione in aumento e l’inflazione che ha colpito duro. In Italia purtroppo non esiste una cultura imprenditoriale all’altezza delle sfide che ci aspettano.