Si avvicinano in Argentina le elezioni parlamentari di metà mandato. Il governo Milei ha dalla sua la netta riduzione dell’inflazione. Ma scandali, tensioni sociali e incertezza economica mettono in dubbio il futuro del programma economico del presidente.
Il successo contro l’inflazione
L’Argentina vive una fase di svolta. L’amministrazione Milei è riuscita dove tutti i governi precedenti avevano fallito: controllare l’inflazione, il male endemico del paese.
Figura 1

La chiave di volta è stata il ritorno immediato al pareggio di bilancio. Javier Milei ha impostato la sua strategia sull’idea che l’Argentina, priva di accesso ai mercati dei capitali, non potesse permettersi un deficit di bilancio. Ogni disavanzo, infatti, avrebbe dovuto essere finanziato con emissione di moneta e avrebbe alimentato nuovamente l’inflazione. Per questo, il presidente ha bloccato qualsiasi iniziativa del Congresso che prevedesse un aumento in deficit della spesa pubblica, arrivando a imporre drastici tagli, dalla sanità alle università, fino alle pensioni.
Il risultato è stato duplice. Da un lato, l’austerità fiscale ha favorito un calo repentino dell’inflazione.
Una popolarità in discesa
Nel primo anno di mandato, il successo contro l’inflazione ha sostenuto la popolarità di Milei. Tuttavia, i tagli alla spesa – uniti alla caduta dei salari reali – hanno fatto via via emergere tensioni sociali che hanno progressivamente eroso il consenso verso il presidente. La rigidità del bilancio ha inevitabilmente creato “sconfitti”: studenti, pensionati, impiegati pubblici, operatori sanitari.
Il governo ha poi dovuto sopportare una ulteriore perdita di consensi prima per uno scandalo legato a una criptomoneta che ha perso valore poche ore dopo essere stata promossa dallo stesso Milei. Si è aggiunto anche un caso di presunta corruzione che ha coinvolto Karina Milei, sorella del presidente e figura centrale del governo. L’immagine di leader “anticasta” che aveva portato Milei al potere ha iniziato a sfaldarsi, contribuendo a un deciso calo di popolarità.
L’opposizione ha così trovato terreno fertile e ha ottenuto una netta vittoria nelle elezioni provinciali di Buenos Aires a inizio settembre – con un margine di 13 punti percentuali. Il risultato elettorale è un importante campanello d’allarme in quanto nella provincia della capitale vive circa il 40 per cento della popolazione argentina.
La sconfitta ha aperto scenari inediti in vista delle elezioni nazionali di metà mandato del 26 ottobre, decisive per un presidente che governa senza maggioranza parlamentare e con un implicito appoggio esterno dei partiti di centro e centrodestra.
Risale il rischio paese
Sotto il profilo economico, gli ultimi tempi sono state caratterizzati da un’estrema volatilità. Lo spread sovrano, da sempre considerato una buona approssimazione del rischio paese, dopo essere sceso sensibilmente nel primo anno di presidenza Milei, è tornato a salire oltre i 1.400 punti base, per il timore di un ritorno al passato. Il dato è poi sceso di nuovo a 1.000 punti base dopo che il segretario al Tesoro americano – Scott Bessent – ha affermato che gli Stati Uniti sono pronti a valutare tutte le opzioni disponibili per garantire la stabilità finanziaria argentina.
Figura 2

Nei giorni più critici, il governo è stato costretto a sostenere il peso vendendo parte delle riserve internazionali che erano state rafforzate dall’accordo con il Fondo monetario internazionale (12 miliardi di dollari ricevuti ad aprile più 2 successivi ricevuti a luglio).
Figura 3

Per il momento il governo si muove all’interno dell’accordo di aprile con il Fmi che ha consentito l’eliminazione dei controlli valutari, la liberalizzazione del mercato valutario e l’unificazione del tasso di cambio, il cui andamento è ora delimitato da una banda di fluttuazione.
Figura 4

La liberalizzazione del tasso di cambio era uno dei principali punti del programma economico di Milei, ma la promessa era stata rimandata per mesi nel timore che improvvisi deflussi di capitale potessero indebolire il peso scatenando una ripresa dell’inflazione. Una volta raggiunto, in aprile, l’accordo con il Fmi – che ha consentito di ricostituire un certo stock di riserve ufficiali – la liberalizzazione è stata avviata. Dopo una prima fase di relativa tranquillità, il tasso di cambio del pesos nei confronti del dollaro ha iniziato a indebolirsi a causa della fuga di capitali alimentata dalle tensioni politiche che hanno spinto il mercato a rifugiarsi nel dollaro.
Per difendere la moneta nazionale, la banca centrale ha prima dovuto alzare i tassi di interesse sui depositi in pesos per disincentivare la domanda di dollari.
Figura 5

Poi, a metà settembre – quando il tasso di cambio ha superato il limite superiore della banda di fluttuazione – è stata costretta a intervenire per sostenere il peso sui mercati valutari.
Il timore di un ritorno al passato
Il clima di incertezza (e di tensione economica) durerà almeno fino alle elezioni di ottobre. Peraltro, a prescindere dal risultato elettorale, i mercati scommettono già su un deprezzamento del peso e sull’abbandono della banda di fluttuazione subito dopo il voto. Sono gli stessi tassi di interesse a suggerirlo. Non è neppure da escludere che, per evitare una crisi valutaria e preservare le riserve in dollari, il governo scelga di intervenire prima, con un deprezzamento concordato con Fmi e, soprattutto, con gli Stati Uniti che ora si prefigurano come il “prestatore di ultima istanza” per l’Argentina.
Rimane il rischio che una sconfitta alle elezioni parlamentari di medio termine faccia deragliare definitivamente il programma economico di Milei. In quel caso un Congresso dominato dall’opposizione sarebbe in grado di imporre un cambio di rotta al presidente vanificando i risultati raggiunti sul fronte della lotta all’inflazione e riportando l’Argentina al consueto ciclo di crisi che hanno caratterizzato la storia recente di molti paesi latino-americani crisi (già mirabilmente descritte da Rudi Dornbusch) . Uno scenario che conferma come senza una base parlamentare solida e soprattutto senza consenso sociale, sia di fatto impossibile procedere con le riforme strutturali di cui Buenos Aires ha disperatamente bisogno. Per questo, oggi, la sfida principale per l’Argentina è politica.
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