I salari inadeguati al costo della vita sono al centro del dibattito sul futuro di Milano. L’analisi dei bilanci delle aziende aiuta a capire se c’è spazio per alzare i redditi da lavoro. Perché la questione salariale chiama in causa anche i sindacati.
Il dibattito sui salari e lo spazio per alzarli
La distanza tra salari e costo della vita è diventata uno dei temi centrali del dibattito sul cosiddetto “modello Milano”. Il capoluogo lombardo presenta infatti i salari medi più alti d’Italia – circa il 35 per cento in più rispetto al resto della Lombardia per i dipendenti del settore privato nel 2023 – ma anche un costo della vita sensibilmente superiore: la soglia di povertà assoluta, per esempio, è più alta del 20–25 per cento rispetto al resto della regione. Da più parti arriva quindi la richiesta di aumentare i salari a Milano.
Prima ancora di chiedersi come farlo, è utile chiedersi quanto siano davvero bassi e quanto spazio ci sia per un aumento. Un modo per affrontare la questione consiste nel mettere i salari in rapporto con la ricchezza prodotta da lavoratori e imprese del territorio e domandarsi: di quanta parte di quella ricchezza riescono ad appropriarsi i lavoratori milanesi? Più o meno che altrove?
La nostra metodologia
Per rispondere alla domanda abbiamo utilizzato i bilanci delle imprese italiane del settore privato non agricolo tra il 2015 e il 2023. Abbiamo selezionato le aziende con almeno cinque dipendenti in almeno uno di questi anni, concentrandoci su quelle con sede legale in Lombardia.
All’interno di questo insieme abbiamo distinto due gruppi: le imprese milanesi, con tutte le unità locali situate nella provincia di Milano, e le imprese lombarde, con filiali solo nel resto della regione.
In totale il campione comprende 14.839 imprese: 5.168 milanesi e 9.678 lombarde. Rappresentano rispettivamente l’8,5 e il 15,7 per cento delle settimane lavorate nel 2023 nelle due aree. La scelta di lavorare su una scala geografica così fine limita purtroppo la rappresentatività del campione, ma ci consente di offrire un quadro utile e coerente per alimentare il dibattito sul tema.
Utilizzando i dati di bilancio – opportunamente deflazionati settore per settore – abbiamo poi calcolato due variabili chiave: la quota di valore aggiunto distribuita sotto forma di salari (la cosiddetta labour share) e la “distanza” tra quanto i lavoratori vengono pagati e quanto effettivamente producono (il cosiddetto markdown, il quale più aumenta al di sopra del valore benchmark di 1 più segnala una capacità delle imprese di pagare salari al di sotto della produttività marginale del lavoro) utilizzando metodologie statistiche standard.
I nostri risultati
Il confronto dei valori medi per l’anno 2023 sembra in prima battuta avvalorare l’idea che a Milano i lavoratori riescano maggiormente ad appropriarsi del valore da loro prodotto: la labour share è leggermente più alta (34,9 per cento contro 33,8 per cento) e il markdown più basso (1,57 contro 1,63). I differenziali si ampliano anche quando confrontiamo le due variabili in un contesto di regressione lineare, con controlli per settore e produttività totale dei fattori. In generale, sembra quindi che il mercato del lavoro milanese remuneri meglio i lavoratori, in linea con quanto suggerisce la più recente letteratura economica sul cosiddetto “urban wage premium”.
Tuttavia, non sempre il valore medio è in grado di catturare appropriatamente un fenomeno nel suo insieme. Lo evidenzia una questa analisi: sebbene i salari medi orari a Milano siano più alti che altrove, quelli orari in fondo alla scala della distribuzione dei redditi sono invece più bassi che altrove. Abbiamo quindi diviso le aziende nel nostro campione in due gruppi di eguali dimensioni: quelle con “bassi salari” (sotto il valore mediano di 40mila euro lordi per lavoratore) e quelle ad “alti salari”. Come si vede nella figura 1, all’interno delle aziende “a bassi salari” il differenziale tra aziende milanesi e lombarde scompare (sempre controllando per settore e produttività totale dei fattori): sia per quanto riguarda la labour share che il markdown la barra di sinistra si avvicina allo zero e l’intervallo di confidenza statistico non consente di affermare che il valore sia diverso da zero. Questo vuol dire che nella metà meno generosa in termini di salari delle aziende milanesi sembra esserci più spazio per ampliare la quota di valore aggiunto di cui si appropriano i lavoratori.
Il ruolo dei sindacati
Se dunque a Milano esiste uno spazio per aumentare i salari di alcuni gruppi di lavoratori – e questa analisi vuole essere l’inizio, non la conclusione, del dibattito sul “se” – la questione successiva riguarda il “come”. La soluzione non può consistere in misure fiscali che, in un gioco delle tre carte, illudono di aumentare i salari, ma in realtà si limitano a spostare risorse da un gruppo sociale all’altro. Né può bastare da solo il salario minimo, anche nella sua versione locale: si tratta di uno strumento utile, ma che per sua natura riguarda solo una quota molto limitata di lavoratori, mentre il problema è più ampio. E non può essere nemmeno solo un tema di produttività, che a Milano è già nettamente più alta che altrove.
I risultati dell’analisi puntano invece in un’altra direzione: quella per i lavoratori di appropriarsi di una quota maggiore del valore aggiunto che contribuiscono a generare. Il compito di raggiungere questo obiettivo spetta in primo luogo ai sindacati, troppo raramente chiamati in causa nel dibattito sulla questione salariale. Nei tavoli di trattativa e di rinnovo sul territorio spetta a loro ottenere per i lavoratori milanesi retribuzioni più elevate e coerenti con il contributo che producono: per una città più inclusiva serve più spazio alla contrattazione territoriale.
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Dottorando in Scienze Economiche presso l'Università Bocconi e socio del think-tank Tortuga. In precedenza, assistente di ricerca presso la London School of Economics e la Fondazione Ing. Rodolfo Debenedetti. I suoi principali interessi di ricerca includono i campi dell’economia del lavoro e delle finanze pubbliche.
Assistente di ricerca presso l'Università Bocconi e socio del think-tank Tortuga. I suoi principali interessi di ricerca includono la produttività e il commercio internazionale.
Giacomo
Articolo molto provocatorio, anche perché in tempi recenti gli sforzi e le manifestazioni dei sindacati italiani si sono soprattutto rivolti verso le problematiche nazionali e internazionali e raramente verso i lavoratori italiani.
Però non sono sicuro che il quadro legale italiano permetterebbe di avere una contrattazione così decentrata.