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La fabbrica nazional-locale di professori

Il disegno di legge sull’università contiene le disposizioni per il reclutamento dei professori. Ne fissa i “principi e criteri direttivi”. Che però sono incoerenti perché discendono dal tentativo di far convivere due orientamenti antitetici. Da un lato, si vuole ricondurre le procedure a una dimensione nazionale. Dall’altro, sopravvivono prescrizioni che assicurano un ruolo autonomo alle singole università. Determinare il numero massimo di soggetti che possono conseguire idoneità diventa un problema matematico irresolubile. Come dimostra un esempio numerico.

Il disegno di legge sull’università, approvato il 29 settembre dal Senato con voto di fiducia, contiene le disposizioni relative al reclutamento dei professori.
Diversamente da quanto accade con la “soppressione” del ruolo dei ricercatori e lo stato giuridico dei professori, il Ddl funge esclusivamente da legge delega. Il comma 5, infatti, delega il Governo ad adottare, entro il termine di sei mesi, opportuni decreti legislativi, per i quali si limita a fissare “principi e criteri direttivi”. Il problema principale che si pone a questo proposito risiede proprio nel carattere incoerente e contraddittorio di questi “principi e criteri direttivi”; sicché nessun Governo potrà mai, senza travalicare i limiti della delega, adottare decreti delegati che abbiano qualche speranza di concreta applicabilità.

Nazionale o locale?

L’incoerenza e contraddittorietà dei “principi e criteri direttivi” discende dal tentativo di far convivere all’interno della medesima legge delega due orientamenti antitetici. Da un lato, infatti, il disegno di legge si propone in maniera esplicita di ricondurre le procedure di reclutamento dei professori a una dimensione nazionale, ponendo termine all’esperienza autonomistica inaugurata nel 1998 e fondata su procedure totalmente locali. Dall’altro, tuttavia, sopravvivono in alcuni punti cruciali prescrizioni che tendono ad assicurare un qualche ruolo autonomo alle singole università. Questo secondo orientamento, in realtà, è il frutto avvelenato della travagliata storia del disegno di legge: il carattere locale delle procedure di reclutamento, infatti, ricompare alla Camera, a un certo stadio dell’iter parlamentare, quando inaspettatamente viene approvato un emendamento dell’opposizione, che scardina l’impianto integralmente nazionale e centralizzato delle idoneità previsto dal testo di maggioranza. Ciò che appare incomprensibile è perché, nel proporre al Senato un maxi-emendamento che riformula integralmente il testo del disegno di legge, e sul quale viene chiesta la fiducia, il Governo non abbia ritenuto di eliminare le incoerenze emerse dal convulso andamento delle votazioni alla Camera.
Non si può certo sapere se questa omissione sia dovuta a insipienza, a negligenza, o magari a raffinato, e proprio per questo incomprensibile, calcolo. Sia come sia, il risultato è questo: ogni due anni viene eletta, per ciascun settore scientifico-disciplinare, una “lista di commissari nazionali“; da questo insieme, per “ciascuna valutazione comparativa”, vengono sorteggiati cinque commissari che, pur essendo “nazionali”, svolgono le proprie funzioni, che conducono alla formulazione di “giudizi idoneativi”, presso l’”ateneo ove si espleta la procedura” – comma 5, lettera a), numeri 1), 2) e 3).
Quale sia il fondamento razionale di un simile cervellotico meccanismo, sfugge. Tuttavia, sia pure fra mille difficoltà pratiche, quanto disposto dal Ddl appare fin qui ancora realizzabile.
Quando però si considerino le modalità previste per determinare “il numero massimo di soggetti che possono conseguire l’idoneità scientifica”, si vede subito che le procedure stabilite non potranno mai trovare realizzazione. Tale “numero massimo”, infatti, dovrebbe essere “pari al fabbisogno, indicato dalle università, incrementato di una quota non superiore al 40 per cento”, che però diviene “pari al 100 per cento” per un certo numero di tornate – comma 5, lettera a), numero 1), e lettere d) ed e). Ma non è finita qui: ulteriori quote, rispettivamente del 25, 15 e 1 per cento, sono aggiuntivamente riservate a diversi insiemi di soggetti (alcuni dei quali riesumati dal lontano 1977, anno nel quale dovevano già soddisfare specifici requisiti di cui forse nessuno conserva più memoria), a seconda delle fasce e per diverse durate temporali – comma 5, lettere b) e c).
Tutto ciò, per quanto grottesco, sarebbe ancora realizzabile se le idoneità scientifiche fossero simultaneamente conferite in una medesima procedura espletata a livello nazionale. Ma come è possibile ripartire quote aggiuntive del 40, 25, 15 e 1 per cento fra procedure locali, presso le singole università, ciascuna delle quali ha presumibilmente indicato il fabbisogno di una sola unità per settore e per fascia? Sembra un problema irresolubile.

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Un esempio numerico

Per un settore scientifico-disciplinare di dimensioni medie, diciamo con duecento professori per fascia, ci si può aspettare che in media vengano richiesti dalle università dieci nuovi posti per fascia per anno (questo approssimativamente coprirebbe il turnover annuale).
Fissiamo l’attenzione su una fascia, per esempio gli associati. I dieci posti saranno richiesti da dieci diverse università: di solito infatti un’università non richiede più di un posto per fascia per settore per anno.
Il disegno di legge prevede che ogni due anni venga eletta una commissione nazionale per settore, diciamo di trenta persone. Da questo insieme viene poi estratto un sottoinsieme di cinque commissari che svolgono le proprie funzioni localmente, università per università. Qui il Ddl si presta a due interpretazioni: la stessa commissione di cinque componenti passa l’intero anno spostandosi di volta in volta, come un gruppo di clerici vagantes, nelle dieci università che hanno chiesto i posti. Alternativamente, per ciascuna delle dieci università richiedenti viene estratta una diversa commissione di cinque componenti dalla lista di trenta eletti, necessariamente con sovrapposizioni, e ciascuna specifica commissione opera presso una e una sola università. Entrambe le alternative non appaiono molto sensate. Fin qui, però, per quanto improbabile, il disegno di legge non è irrealizzabile. Ma quante sono le idoneità da assegnare? Come vengono concretamente assegnate?
Per quanto riguarda il numero massimo di idoneità, il disegno di legge specifica alcuni coefficienti di maggiorazione rispetto al numero dei posti richiesti dalle università: per la fascia degli associati la maggiorazione prevista a regime è del 40 per cento, ma per le prime quattro tornate (cioè per i primi quattro anni, secondo l’ottimistica previsione del Ddl), la maggiorazione diviene del 100 per cento. A questo si devono aggiungere, sempre per le prime quattro tornate, una maggiorazione del 15 per cento come riserva a favore degli incaricati stabilizzati, degli assistenti e dei ricercatori confermati con tre anni di insegnamento e un’ulteriore maggiorazione dell’1 per cento come riserva a favore di una speciale sottoclasse di tecnici laureati. Allora, per le prime quattro tornate il numero massimo di idoneità conferibili sarebbe pari a 10 * 216% = 21,6, che possiamo approssimare a 22. Per le tornate successive, e quindi per sempre a regime, sarebbe pari a 10 * 140% = 14.
Ma come dovrebbe essere distribuito questo numero massimo fra le varie procedure idoneative? Poiché il disegno di legge prevede che ci siano dieci distinte procedure presso altrettante università, con la stessa commissione giudicatrice itinerante o con commissioni diverse, si porrebbe il problema di fissare un tetto di idoneità procedura per procedura. Una distribuzione egualitaria darebbe luogo a idoneità frazionarie (vogliamo forse dare l’idoneità a una gamba di associato?). Una distribuzione non egualitaria risolverebbe il problema dei numeri interi, ma introdurrebbe elementi di ingiustificato diverso trattamento, inammissibile nelle selezioni pubbliche e impugnabile davanti ai Tar. A prescindere dall’assurdità di tutta la procedura, non vedo come si possa tecnicamente risolvere il problema.
Reclutamento dei professori, definizione di un nuovo stato giuridico e “soppressione” del ruolo dei ricercatori, sono i punti cruciali del disegno di legge. Ma in tutti e tre i casi le soluzioni proposte non appaiono coerenti con gli obiettivi dichiarati o anche soltanto con un qualsiasi obiettivo ben definito. E nessuno dei problemi che affliggono l’università italiana è risolto o avviato a soluzione, anzi qualcuno è aggravato da queste norme. Un magro bilancio per un disegno di legge presentato dai proponenti come “rivoluzionario”.

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Calcoli da pallottoliere?

  1. Giovanni Federico

    Pur concordando con il giudizio generale dell’autore sull’assurdità del sistema, vorrei suggerire un’interpretazione alternativa dei meccanismi concreti. I professori eletti e poi sorteggiati sono i commissari per un giudizio di idoneità equivalente al vecchio (e apparentemente rimpianto dalla CRUI) concorso nazionale della 382/80. Ad esso si applicano le varie quote per soddisfare gli appetiti corporativi. Le singole università possono poi scegliere con valutazioni locali, secondo procedure da loro stabilite, un professore fra gli idonei. In questo meccanismo, esse avrebbero un minimo di autonomia. D’altra parte il doppio concorso sarebbe estremamente lento, come chiunque sia passato per i concorsi del vecchio tipo sa bene. Questo inconveniente, sempre grave, potrebbe divenire gravissimo nel momento in cui si renderà necessario rimpiazzare il gran numero di docenti assunti negli anni Settanta che inizieranno ad andare in pensione verso la fine di questo decennio.
    In tutto questo, il merito scientifico non ha ovviamente alcun peso. E l’università italiana continua a scivolare nel Terzo Mondo – anzi nel Quarto (paesi come l’India stanno molto meglio di noi)
    Giovanni Federico
    Università di Pisa e Istituto Universitario Europeo

    • La redazione

      L’interpretazione delle procedure di reclutamento dei professori previste dal ddl (ora legge) sull’Università è assai controversa. L’interpretazione suggerita da Giovanni Federico nel suo commento è quella più naturale per una persona dotata di buon senso e corrisponde quasi certamente agli intenti originari del Governo; peccato però che non sia suffragata dal testo del ddl, così come è stato approvato dal Parlamento. Se infatti si legge il comma 5, che fissa i principi e criteri direttivi cui si dovranno attenere i decreti delegati volti a regolare le procedure per il conferimento delle idoneità, si vede che tali procedure si dovranno “svolgere presso le università” (lettera a, punto 1), restando ben chiaro, a scanso di equivoci in tempo di ristrettezze di bilancio, che “tutti gli oneri relativi a ciascuna commissione di valutazione sono posti a carico dell’Ateneo ove si espleta la procedura” (lettera a, punto 3). Questo significa, senza possibilità di equivoco, che le “procedure finalizzate al conseguimento della idoneità scientifica nazionale” si devono svolgere … a livello locale! Anche le procedure di valutazione comparativa finalizzate alla copertura dei posti di professore ordinario e associato si svolgono a livello locale, naturalmente; ma queste ultime sono regolate dal comma 8 del ddl, e non devono quindi essere confuse con i giudizi idoneativi di cui al comma 5.
      Come ho rilevato nell’articolo, l’origine di questo pasticcio risiede nell’approvazione, in prima lettura alla Camera, di un emendamento dell’opposizione, che ha scardinato in maniera inattesa ed estemporanea l’impianto centralizzato delle procedure idoneative originariamente previsto dal Governo. Perché il Governo non abbia poi corretto al Senato questa incongruenza è un mistero. Resta il fatto che i criteri direttivi, così formulati, sono contraddittori e inapplicabili, come ho mostrato nell’articolo, anche mediante un’illustrazione numerica. Il Governo potrebbe naturalmente cercare di correggere le incongruenze della legge delega in sede di adozione dei decreti legislativi; in tal caso, peraltro, incorrerebbe inevitabilmente in un problema di eccesso di delega. Con ogni probabilità, quindi, il tutto finirebbe alla Corte Costituzionale. La mia personale previsione è che questo Governo non abbia né il tempo né la volontà di adottare i decreti delegati prima dello scioglimento delle Camere; per la parte relativa al reclutamento dei professori, quindi, il ddl resterà probabilmente inapplicato fino alla prossima legislatura, nella quale sarà auspicabilmente abrogato.

  2. Patrick Henrard

    Questo interessante articolo continua a sviluppare uno dei mali antichi dell’Università italiana, e cioè la contemplazione narcisistica del proprio (non dotatissimo) ombelico. Se ci cercano i professori stranieri nelle Università italiane, si contano sulle dita di una mano, poiché l’embargo sulla materia grigia di provenienza estera è notevole. Paura della concorrenza intellettuale, sicuramente, preservazione delle rendite di posizioni familiari ancora più probabilmente. L’esempio dei lettori stranieri di lingua e letteratura nelle Università italiane illustra fino all’assurdio quest embargo : quanti di loro a pari o superiore competenza linguistica e scientifica sono diventati non dico professori, ma almeno ricercatori? La discriminazione anti-stranieri è il male oscuro conseguenza del clientelismo universitario “nazional-locale”. Confido sempre che l’Unione Europea voglia scardinare questa discriminazione per il bene stesso dell’Università italiana, sclerotizzata da una consanguinità (eredità del posto di docente in molti casi) che La rende inadatta ad essere un soggetto dell’Europa dell’intelligenza.
    Patrick Henrard
    Collaboratore ed esperto linguistico Università di Milano Bicocca.

  3. Luciano Guerzoni

    Per quanto confuse ed improvvide le menti e le mani ministeriali che hanno redatto il maxiemendamento governativo, l’interpretazione che Donzelli ne opera, pur testualmente legittima, dà luogo ad un risultato talmente irragionevole da renderla infondata. Sembra più verosimile un’altra interpretazione. Il Ministro, raccolte le richieste degli atenei, “bandisce, con proprio decreto, per settori scientifico-disciplinari, procedure finalizzate al conseguimento della idoneità scientifica nazionale, entro il 30 giugno di ciascun anno, distintamente per le fasce dei professori ordinari e dei professori associati” (comma 5, n. 1, lett.a). Quindi, c’è un bando unico annuale per settore e per fascia. Lo stesso d.m. determina, per ciascun settore e fascia, oltre al numero massimo delle idoneità, l’ateneo ove si svolge la relativa procedura (unica, nazionale), rifilandogli, per legge, le relative spese. L’ateneo… prescelto (per sorteggio ? previo accordo ? non è dato capire), funziona, di fatto, come sede decentrata dell’Amministrazione centrale. Alla faccia dell’autonomia gestionale e finanziaria delle università. Sarà comunque un caos.

    • La redazione

      Naturalmente non posso che inchinarmi di fronte alla sapienza giuridica e all’esperienza legislativa e di governo di Luciano Guerzoni. Noto peraltro che lo stesso Guerzoni riconosce che l’interpretazione da me proposta è “testualmente legittima”; a suo avviso, tuttavia, essa deve considerarsi “infondata” a causa del “risultato […] irragionevole” cui dà luogo. Non sono un giurista e non sono in grado di valutare se il “principio di carità interpretativa” sia ormai entrato a far parte dei fondamenti comunemente accettati dell’ermeneutica giuridica. Sono naturalmente ben consapevole dell’assurdità delle procedure idoneative che discendono da un’interpretazione letterale della norma (a questo riguardo, tuttavia, invito Guerzoni e tutti quanti a rileggere parola per parola i punti 1 e 3 della lettera a del comma 5). Sono anche consapevole del fatto che il Governo, se volesse rendere applicabili le norme appena approvate, dovrebbe utilizzare in maniera intelligente e spregiudicata i decreti delegati, da adottarsi entro sei mesi, al fine di eliminare le evidenti contraddizioni insite nei criteri direttivi contenuti nella legge delega (con le prevedibili conseguenze di carattere costituzionale e forse amministrativo che comunque ne discenderebbero). Ma vorrà veramente il Governo impegnarsi in un simile tour de force alla fine della legislatura? E, anche se lo volesse, sarebbe in grado di farlo? L’imperizia dimostrata nella predisposizione del maxi-emendamento induce a dubitare delle capacità tecniche degli uffici ministeriali. Il clima politico generale induce invece a dubitare della volontà del Ministero di procedere a tappe forzate per quanto riguarda i decreti delegati, dopo aver incassato l’approvazione formale di una legge il cui maggior pregio è quello di rinviare a un futuro lontanissimo e vago tutte le conseguenze più spinose e controverse, producendo solo, come effetto di breve periodo, un probabile risparmio di spesa (a causa del blocco immediato delle procedure per il reclutamento dei professori e della probabile impossibilità di conferire affidamenti retribuiti ai ricercatori).

  4. LucianoGuerzoni

    Il principio di… “carità interpretativa”, per altro il più appropriato al caso, non fa ancora parte dell’ermeneutica giuridica, ma quello di ragionevolezza sì. E’ un canone interpretativo assunto dalla stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale. Nel merito, il risparmio atteso non ci sarà, perchè il Ministro ha già preannunciato una norma per sbloccare i concorsi per tutto il 2006 (immemore del suo maxiemendamento e del diniego opposto agli emendamenti che, correttamente, spostavano il blocco alla data di entrata in vigore dei decreti delegati, e non della legge). Concordo su tutto il resto e ringrazio per l’attenzione

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