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SE IL LAVORO È PROTETTO, LA CRESCITA RALLENTA

Gli effetti dei regimi di protezione dell’occupazione sul mercato del lavoro in termini di efficienza per imprese e lavoratori sono oggetto di studio e di dibattito approfondito. Meno attenzione è dedicata agli effetti sulla crescita di lungo periodo. Modificando gli incentivi delle imprese all’adozione di tecnologie più innovative nei settori con forza lavoro più qualificata, elevati costi di assunzione e licenziamento rallentano l’espansione di questi settori e la crescita della produttività, favorendo una specializzazione basata su settori maturi e tradizionalmente meno innovativi.

La riforma del mercato del lavoro e i costi effettivi che la protezione dell’occupazione impone su imprese e lavoratori sono al centro del dibattito italiano ed europeo di questo periodo. (1) Diversi interventi sottolineano la perdita di efficienza che alcuni aspetti della legislazione del lavoro impongono alle imprese e ai lavoratori e, in particolare, l’effetto dell’articolo 18 nel sistema italiano. Tuttavia, un aspetto spesso trascurato riguarda gli effetti che i regimi di protezione dell’impiego hanno sulla crescita economica di lungo periodo. (2)

IMPRESE E TECNOLOGIA

La presenza di una forza lavoro qualificata è condizione necessaria per l’adozione e lo sfruttamento delle tecnologie più innovative, quali ad esempio quelle ICT o anche il semplice utilizzo di macchinari tecnologicamente più avanzati. Sebbene non sia ancora del tutto chiaro quale sia il canale di trasmissione che facilita l’adozione di tali tecnologie da parte delle imprese, l’utilizzo di tecniche produttive e organizzative più semplici, snelle e decentralizzate è probabilmente uno dei canali attraverso cui le nuove tecnologie possono determinare l’aumento della produttività e quindi, in ultima istanza, favorire la crescita.
Tuttavia, il processo di adozione della tecnologia è inevitabilmente legato a un percorso di riorganizzazione della forza lavoro delle imprese, e per questo motivo richiede un certo grado di flessibilità, sia in termini di maggiore mobilità interna del lavoro, che eventualmente in termini di maggiore flessibilità nelle scelte di assunzione e licenziamento dei lavoratori. D’altronde, come suggerisce la figura riportata sotto, esiste una correlazione negativa tra l’adozione delle nuove tecnologie (in questo caso misurata dall’utilizzo di computer pro capite) e il livello di protezione dell’impiego.

SETTORI MATURI E PROTEZIONE DEL LAVORO

In un nostro lavoro recente analizziamo come i regimi di protezione dell’impiego europei influenzano gli incentivi delle imprese all’adozione delle tecnologie più innovative nei diversi settori dell’economia. (3) Per fare questo, abbiamo ordinato circa cinquanta settori nella manifattura e nei servizi sulla base del livello medio di istruzione dei lavoratori occupati in quei settori (intensità di capitale umano). Secondo questo approccio, l’intensità di capitale umano è una caratteristica tecnologica del settore che non dovrebbe variare tra le diverse economie e viene quindi approssimata da quella prevalente nell’economia americana, in cui il livello di regolamentazione del mercato del lavoro è decisamente più basso che negli altri paesi.
Assumendo che le imprese nei settori con una forza lavoro più qualificata siano anche quelle che hanno una maggiore propensione all’adozione delle nuove tecnologie, ci si potrebbe aspettare che i regimi di protezione dell’impiego, attraverso le restrizioni all’aggiustamento della forza lavoro, abbiano un effetto relativamente maggiore nei settori con maggiore intensità di capitale umano. (4)
Nel nostro lavoro, utilizziamo i dati sulla crescita del valore aggiunto e delle ore lavorate per un gruppo di quindici paesi europei nel periodo 1970-2005 e valutiamo l’effetto dei regimi di protezione dell’impiego nei diversi paesi sulla espansione dei settori con maggiore intensità di capitale umano e quindi con maggiore propensione all’innovazione e all’adozione di nuove tecnologie. Le nostre stime indicano che il differenziale di crescita tra un settore a relativamente elevata intensità di capitale umano (esempio: fabbricazione di prodotti chimici) e un settore a relativamente bassa intensità di capitale umano (esempio: settore alimentare) è minore di circa 0,7 punti percentuali in un paese caratterizzato da un mercato del lavoro relativamente rigido (Grecia) rispetto ad un paese con mercato del lavoro relativamente flessibile (Austria).  La grandezza di questo effetto non è assolutamente da trascurare, tenuto conto del fatto che, nel nostro campione, il differenziale medio di crescita  tra i due settori sopra citati è stato di circa il 2.4%.
La conseguenza principale di questo risultato è che i paesi con un regime di protezione dell’impiego relativamente elevato tendono a specializzarsi in settori relativamente maturi, caratterizzati da una forza lavoro scarsamente qualificata e da bassi tassi di adozione della tecnologia. Questo ci aiuta anche a capire il processo di specializzazione delle economie europee (e di quella italiana in particolare) negli anni più recenti, orientate verso un modello di sviluppo largamente basato su settori tradizionali, caratterizzati da una limitata adozione delle tecnologie più innovative sul posto di lavoro e da innovazioni “secondarie”, cioè tese principalmente a migliorare prodotti già esistenti e non ad introdurne di nuovi.
Abbiamo inoltre verificato che l’effetto negativo dei regimi di protezione dell’impiego è stato più forte a partire dagli anni Novanta e in generale nel caso di paesi più vicini alla frontiera tecnologica e per il settore manifatturiero. Infatti, mentre durante gli anni Settanta e Ottanta il processo di crescita era fortemente guidato dall’adozione o dall’imitazione di tecnologie già ampiamente sperimentate in paesi tecnologicamente più avanzati, durante gli ultimi due decenni la crescita è più strettamente legata all’innovazione diretta e all’adozione di tecnologie più avanzate (come ad esempio le ICT). Poiché tali tecnologie richiedono più che in passato un processo di sperimentazione e di successiva adeguata implementazione, una legislazione del lavoro che preveda un processo di selezione dei lavoratori più flessibile e adeguato a queste esigenze è condizione necessaria per garantire un incremento costante della crescita di lungo periodo.

(1) Si veda ad esempio l’articolo recente di Fabiano Schivardi su lavoce.info, e quello di Marco Leonardi e Giovanni Pica su Noisefromamerika ().
(2) Ci sono eccezioni rilevanti. Vedi ad esempio Bassanini A., Nunziata, L. and Venn D. (2009), “Job Protection Legislation and Productivity Growth in OECD Countries”, Economic Policy, vol. 24 (April), pp. 349-402; e Cingano, F. Leonardi, M. Messina, J. and Pica G. (2010), “The effects of employment protection legislation and financial market imperfections on investment: evidence from a firm-level panel of EU countries”, Economic Policy, vol. 25(January), pp. 117-163.
(3) Conti, M. and Sulis, G. (2010), “Human Capital, Employment Protection and Growth in Europe”, Working Paper CRENoS 10-28.
(4)Nel paper mostriamo come questo risultato possa essere derivato incorporando degli elementi di progresso tecnico orientato verso il lavoro qualificato in un semplice modello di capitale umano e adozione di tecnologia.

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18 commenti

  1. Marco Taschetta

    Buongiorno , il vostro interessante articolo a mio modesto parere inverte cause ed effetti, perchè:
    – per aumentare l’intensità di capitale umano, bisogna migliorare il livello qualitativo dell’istruzione, ed allargare il numero di persone istruite
    – nelle diverse economie, l’intensità di capitale umano non è una variabile autonoma, ma interconnessa al modello sociale esistente nella realtà specifica, quindi difficilmente utilizzabile come parametro di confronto tra paesi diversi. In sostanza, prima bisognerebbe creare le condizioni (il paracadute) e poi modificare il mercato del lavoro, o sarà disastro.
    Ci vantiamo di essere europei, dovremmo anche mettere in pratica il nostro europeismo, scegliendo autonomamente modelli di sviluppo diversi da quelli americani o asiatici. Cordiali saluti, Marco

  2. marco

    L’articolo è molto centrato e conferma quanto empiricamente è perfettamente noto, e cioè che la regolamentazione eccessiva impedisce le innovazioni, sopratutto quelle che danno origine a nuove attività tecnologiche. Si pensi ad esempio a due persone come Jobs e Wozniak creatori della Apple, entrambi fuori dai classici canoni industriali, non laureati, attività irregolare, fuori dalla grande industria…Se pensiamo un istante a cosa sarebbe successo di loro in Italia si evidenziano immediatamente tutti i nostri problemi, a partire dall’eccesso di regolamentazione su tutto e su tutti. I primi Apple non sarebbero stati vendibili per la mancanza di marchi CE, i primi collaboratori avrebbero dovuto essere assunti secondo il contratto dei metalmeccanici, le banche li avrebbero schifati, …e quante altre cose sarebbero intervenute per azzopparli subito? L’Europa sta rinunciando al futuro, perfino la Germania vive si bene grazie alla buona organizzazione e struttura statale, ma di tecnologie mature… L’Europa finanzia le StartUp scelte con criteri burocratici, gli Usa favoriscono le innovazioni senza burocrazia, c’è sempre tempo per regolamentarle a successo e sviluppo avvenuto…

  3. Methodologos

    Il grafico non è scientifico ma ideologico. Perché quella linea del fitted value non vuol dire nulla. Postula una correlazione negativa a priori tra protezione dell’impiego e nuove tecnologie e, per dimostrarla, identifica una cornice statistica all’interno della quale scegliere due punti di riferimento funzionali alla tesi preconcetta (da una parte gli USA, grande mito, e dall’altra l’Italia, grande sventurata). A parte il fatto che il numero percentuale di computer di per sé non vuole dire nulla (quali computer? come usati? per quali funzioni?) perché mai non si traccia una bella linea tra GB e Svezia, che dimostrerebbe come tanti computer si possano avere anche con una ragionevole sicurezza sul lavoro? E magari con dipendenti che li sanno usare. Per favore, uscite almeno un po’ dalle gabbie ideologiche di matrice neoliberista e anglo-americana (che pure in questo momento sembrano di gran moda alle scelte politiche dei nostri governanti). E infine, visto che Svezia e Grecia hanno la stessa sicurezza sul lavoro ( sarà davvero?) ma non lo stesso numero di computer, non ci sarà qualche altro problemino a complicare la questione?

  4. Giulio Savelli

    Si potrebbe anche dire che Paesi con specializzazione su settori maturi hanno necessità di tutelare lavoratori che, mancando di competenze specialistiche, difficilmente trovano nuova occupazione se licenziati. Sistemi diverse, tutele diverse, prospettive individuali differenti, differente efficienza del sistema e differente crescita. In ogni caso gli argomenti, così proposti, sembrano più assiomi che evidenze empiriche, e paiono quindi più argomenti ideologici che spunti di riflessione.

  5. Paolo Rebaudengo

    Sugli aspetti metodologici dell’articolo, interessante, sono state espresse diverse riserve serie. Io vorrei invece porre un tema di tipo più generale per quanto riguarda il lavoro dei giovani e anche meno giovani in tutti i settori, compreso quello della ricerca e dell’alta tecnologia: certo, meglio un lavoro precario e poco pagato che la disoccupazione, specie se si tratta di un lavoro stimolante e formativo. Ma qual’è la soglia sociale accettabile? Seguendo il precetto costituzionale (art. 36 Cost.) il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa. Vale ancora? Credo di sì, la norma non è ancora stata abrogata. Allora di cosa stiamo parlando? Quali costi alti di assunzione e di licenziamento? I dati ISTAT dicono che l’85% delle assunzioni avvengono con contratti a termine o a progetto, con costi di assunzione bassissimi e nessun costo di licenziamento: non basta? cordiali saluti Paolo Rebaudengo

  6. Francesco Toscano

    La teoria economica che salverà l’europa è la MMT. Ho fatto un reportage sulla tre giorni riminese sul sito http://www.ilmoralista.it

  7. Emiliano Ferrari

    Cosa è una giustificazione scientifica all’irresponsabilità dell’impresa? Vedi Luciano Gallino.

  8. umberto carneglia

    L’articolo, di estremo interesse , getta luce sul tema del giorno, non solo in Italia ma in Europa. Il tema riguarda in particolare il confronto fra due modelli di regolo del lavoro importantissimi: quello USA e quello tedesco. Entrambi sono modelli di successo, riguardano Paesi avanzati, cioè sulla frontiera, che crescono solo se innovano molto. Però il modello tedesco adotta una flessibilità del lavoro un po’ più vigilata o protetta di quello americano. Eppure da alcuni anni la Germania innova molto e cresce bene. Anche gli USA,nonostante le disavventure della crisi finanziaria, restano fra i leaders dell’innovazione. Si potrebbe concludere che i due modelli del lavoro sono equivalenti, pur essendo quello tedesco leggermente più protettivo? domanda difficile, perchè le variabili in gioco sono molte e non riguardano solo i contratti di lavoro. Però è una domanda importante alla quale bisognerebbe rispondere approfondendo l’analisi anche con inchieste presso gli imprenditori.

  9. P. Magotti

    Molto interessante e spero venga sviluppato ulteriormente, perché è trattato per questioni di lunghezza che capisco, un po’ superficialmente. Mi piacerebbe venisse approfondito soprattutto l’aspetto econometrico, una mole di dati più consistente. Relazioni non solo con il numero pc, ma magari anche con investimenti nell’ IT o altro. Inoltre vi pregherei di mettere sempre regressioni lineari, con R^2, formula della retta e se la variabile è significativa. Grazie

  10. Emiliano Ferrari

    A che cosa serve la vostra scienza se non a giustificare l’irrazionalità del processo di smantellamento della responsabilità aziendale e dello scarico dei costi sul singolo individuo inerme, costretto da solo a combattere con il mondo.

  11. marco

    Ammesso che sia effettivamente tutto giusto e verificabile quanto scritto,ovveroche la flessibilità favorisce lo sviluppo di settori nuovi con maggiore potenziale e risulta meno difensivo nei confronti dei settori maturi con meno potenziale, bisogna riconoscere che il problema è un altro ovvero:come si può creare un mercato del lavoro flessibile e allo stesso tempo in grado di garantire sicurezza economica e quindi in grado di rilanciare l’occupazione e i consumi e tutelare i diritti dei cittadini? Se creare flessibilità significa sprofondare in un sistema all’americana dove se non hai i soldi per pagarti l’assicurazione sanitaria muori per strada come un cane no grazie; è meglio vivere con meno soldi ma avere una ricchezza più distribuita e delle certezze che permettono di vivere più sereni- Altra riflessione; se per creare un mercato flessibile aumentiamo i costi sulle imprese e sui lavoratori non penso che gli investimenti possano aumentare in nessun settore ;se a a questo aggiungiamo il problema dell’inefficienza del sistema giudiziario e del pizzo da pagare alle mafie si capisce perchè molte aziende non investano in Italia- O continuiamo a raccontarci che sia perl’art.18?

  12. Harvey

    L’articolo è interessante, ma potrebbe benissimo applicato in senso inverso. Provate a correlare l’uso di ITC con l’età e la scolarizzazione media dell’imprenditore, e vedrete che otterrete la stessa correlazione negativa. Il problema italiano non è legato al protezionismo del mercato del lavoro, ma alla cultura generale del paese, e dell’imprenditore in generale. La media degli imprenditori italiani non sa usare il PC e non ne capisce l’importanza e le potenzialità. Per tanti di essi, il PC è solo un modo per giocare ed andare su facebook in orario di lavoro. E, per lo stesso motivo culturale, la forza lavoro è solo un mezzo da sfruttare e non un’opportunità di crescita. Ed è per questo che c’è maggiore necessita di proteggere il lavoratore….

  13. PDC

    Che la correlazione proposta a mo’ di dimostrazione della tesi sia a dir poco un po’ inconsistente l’hanno già detto altri e non sto a ripeterlo. Per venire al merito della tesi, ossia che la protezione dell’impiego implichi in qualche misura una minore capacità di riallocazione del lavoro stesso e quindi in cascata di riorganizzazione ed innovazione, direi che è addirittura tautologico… il problema piuttosto è la quantificazione di questo effetto e la sua comparazione con: a) i vantaggi in termini di stabilità sociale offerto da un ragionevole grado di protezione dell’impiego; b) il reale impatto che le garanzie di legge hanno rispetto alla libera scelta di aziende e management (ossia in Italia non si licenzia il personale ridondante o improduttivo per l’articolo 18 o perchè la classe dirigente non ha interesse a farlo?) c) l’influsso che la cultura, i servizi, la gestione della cosa pubblica, la disponibilità di capitali, hanno sul tasso di innovazione. Sospetto che i paesi che innovano meno siano semplicemente quelli dove manca l’humus adatto.

  14. Alberto

    Mi spiace per gli autori, ma non posso che unirmi al coro delle critiche: correlazioni poco chiare, inversioni nella direzione dei possibili nessi causali, assunti discutibili, variabili non considerate: insomma uno studio, o perlomeno, un articolo sconclusionato e ideologico.

  15. Marina

    Dalla famigerata Legge Biagi (meglio dire Legge 30!) in poi, non si può dire che il mercato del lavoro italiano sia rimasto ingessato, basta vedere le modalità contrattuali prevalenti di chi accede al lavoro. Nemmeno si può die che non vi sia nel paese un “esercito di riserva” di giovani laureati (anche in settori tecnico scientifici) disoccupati o sottoutilizzati, Eppure la produttività del sistema non è cresciuta (anzi) rispetto agli anni precedenti al 2001. E dunque? Forse il problema ,come altri hanno qui detto, deve essere ricercato nel sistema delle covenienze degli imprenditori ad indirizzare i loro profitti in investimenti o in altri impieghi diciamo “extra aziendali”

  16. L. C.

    Scusate, ma, pur comprendendo la necessità di riassumere un lavoro sicuramente complesso, valutando questo articolo sorgono molti dubbi sull’attendibilità delle vostre analisi. Senza entrare nei dettagli, mi viene da chiedere come avete isolato le altre variabili che influenzano l’avanzamento tecnologico delle imprese o la sostituzione di produzioni a basso contenuto tecnologico con produzioni tecnologicamente più avanzate. Mi vengono in mente almeno una mezza dozzina di fattori che andrebbero isolati per valutare il solo impatto dell’EPL sullo sviluppo tecnologico delle imprese di un paese: investimenti pubblici in ricerca, numero di laureati in materie scientifiche, incentivi statali alla ricerca privata, età media della forza lavoro, qualità ed estensione delle infrastrutture, numero di ricercatori impiegati nel paese… Detto questo, mi viene anche da chiedere come avete calcolato l’EPL, perché i numeri del grafico, così a memoria, non tornano con quelli OECD. Se non ricordo male nel 2008 italia e germania erano entrambe intorno a 2,6 con la germania in realtà un po’ sopra l’italia di qualche decimale, inoltre finlandia e svezia dovrebbero scambiarsi di posto.

  17. cellaio

    Sinceramente non ho capito l’articolo: forse è colpa mia. L’economia Usa è sicuramente una economia innovativa e veloce, ma il suo tasso di disoccupazione non mi pare invidiabile al momento: questo è solo un motivo per cui non mi pare che sia un buon modello, ma forse è difficile trovarne oggi, a parte le dittature. Come già altri hanno detto, oggi le imprese hanno la possibilità di assumere laureati sottopagati ma non lo fanno, altri ancora hanno detto che il pesce puzza dalla testa, infatti è chi fa impresa in questo paese che non è innovativo, che facciamo allora un’esproprio?.. Poi. molte aziende sono sotto i 15 dipendenti (o presunti) ma non sono innovative, perché mai? potrebbero assumere molti giovani..Infine perché mai non si prende in considerazione la riqualificazione delle competenze dei dipendenti invece che cacciarli e prenderne di nuovi, forse perché l’innovazione senza una cultura aziendale diversa non ha senso? E poi per favore la finiamo di fare discorsi di surplusproduttivo ottocentesco, esitono i consumi e il cerchio allora si chiude e forse la disoccupazione rientra tra i paramentri economici. Ma il mio è un punto di vista, vi ringrazio per l’articolo

  18. GIUSEPPE COLANGELO

    Ci siamo scordati (anche chi ha risposto) un dato fondamentale: l’italia è il secondo esportatore di capitale umano in europa dopo la romania, ed il primo per quanto riguarda i laureati. Sono uno studente di ingegneria gestionale e quale incentivo ho di rimanere in italia? Conviene sempre ed in ogni caso andare all’estero per tre motivi: tassazione più bassa, potere d’acquisto maggiore, servizi ai cittadini efficenti. Prima di discutere se rendere flessibile o no il lavoro bisogna vedere l’attitudine degli imprenditori a far fare carriera e valorizzare i proprio dipendenti, in Italia ci sono molti imprenditori validi e che tengono al proprio personale e altrettanti (anzi sicuramente in numero maggiore) che cercano di sfruttare e pagare poco: un esempio sono i call center, non è accettabile che ci siano casi in cui i lavoratori percepiscono 2 euro lordi/l’ora, è chiaro che l’Italia non cresce ma la ragione vera sono le basse buste paga. Do un consiglio molto semplice, vedete da quando venne introdotta la legge Biagi: gli stipendi sono rimasti gli stessi in media e la crescita è stata praticamente nulla essendo diminuiti i consumi.

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