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Il punto debole della class action all’italiana

La Camera ha appena approvato la class action all’italiana. Il provvedimento ha luci e ombre. Ma su un punto il Senato dovrà intervenire: decisioni fondamentali per il contenzioso non possono essere appannaggio solo di chi ha promosso per primo il giudizio. Il rischio “corsa al tribunale”.

La class action in versione italiana
I nostri deputati sono divisi su molte cose, ma hanno trovato perfetta concordanza sul rafforzamento della cosiddetta azione di classe, ossia la possibilità per soggetti lesi da una stessa condotta di agire in giudizio collettivamente per ottenere il risarcimento del danno. Pochi giorni fa la Camera dei deputati ha infatti approvato all’unanimità un progetto di legge volto a facilitare la tutela collettiva di consumatori, utenti e investitori nei confronti di imprese e gestori di servizi pubblici.
Il plauso di pressoché tutte le parti politiche, dal Pd ai pentastellati, non sorprende: si tratta di una legge ben vendibile all’opinione pubblica, evocando l’esigenza di dare armi più robuste alle parti deboli. Anche le associazioni dei consumatori battono le mani, mentre Confindustria è molto critica.
La class action è un istituto originario dei sistemi di common law e in particolare paradigmatico degli Stati Uniti, come molti film ci hanno mostrato, che consente a una moltitudine di soggetti di “unire le forze” e promuovere un giudizio unico nei confronti di convenuti dalle spalle larghe come grandi società quotate. Può consentire l’enforcement “privato” di regole che, altrimenti, rischierebbero di restare lettera morta e in questo senso va salutato con soddisfazione.
Per funzionare necessita però di un habitat giuridico e socio-economico adeguato, ed è facile alterare il delicato equilibrio tra protezione di diritti calpestati e azioni abusive che espongono imprese e operatori a costi e rischi significativi.
Il provvedimento italiano, ora all’esame del Senato (disponibile qui), presenta luci e ombre. Non è possibile svolgere qui un’analisi completa di un testo tanto complesso: i punti meritevoli di discussione sono troppi. Mi limito a un solo aspetto tecnico, ma di grandissima rilevanza, pressoché ignorato nel dibattito e che il Senato è in tempo a correggere.
Chi prende tutte le decisioni
L’attuale testo prevede che un soggetto che si ritiene danneggiato da una condotta illecita, ad esempio un investitore che abbia acquistato strumenti finanziari sulla base di informazioni false diffuse da una società quotata, possa promuovere l’azione collettiva. Il tribunale, verificata la sussistenza dei presupposti necessari, stabilisce chi siano i possibili membri della classe (ad esempio, tutti i risparmiatori che si trovano in una simile posizione avendo acquistato i titoli in questione in un periodo definito) e che possono, entro un termine fissato dal giudice, aderire alla classe.
Gli aderenti, tuttavia, non assumono la qualifica di “parte”, potendo e dovendo unicamente indicare le ragioni a fondamento della propria pretesa: ne consegue che molte decisioni fondamentali relative al contenzioso, dalla scelta degli avvocati alla strategia processuale, saranno appannaggio di chi ha per primo promosso il giudizio.
Questa soluzione è sbagliata anche nella prospettiva di tutela di consumatori e risparmiatori, e bene lo insegna l’esperienza statunitense. Un simile approccio, infatti, determina una “corsa al tribunale” nella quale chi prima si muove, indipendentemente dalla propria posizione, afferra il timone del contenzioso. Occorrerebbe, come da tempo previsto negli Stati Uniti, un meccanismo per l’identificazione di un leading plaintiff (ricorrente leader) che offra garanzie di serietà e ben rappresenti gli aderenti. Il rischio, tornando al nostro esempio, è che piccolissimi risparmiatori o consumatori, titolari di interessi molto limitati, possano agire per centinaia di soggetti con posizioni ben più rilevanti. È necessario un sistema di selezione del rappresentante più adatto, ad esempio in base al valore del risarcimento che gli spetterebbe o tramite voto ed elezione tra gli aderenti. In questo modo, nell’ipotesi di frode finanziaria commessa da un emittente, la condotta processuale sarebbe guidata da investitori istituzionali titolari di interessi significativi, ma che offrono maggiori garanzie di rappresentatività, professionalità e capacità di gestire contenziosi complessi. Il tema è delicato anche pensando che queste azioni potrebbero essere promosse su impulso di avvocati i cui interessi non sono sempre allineati con quelli della maggioranza dei danneggiati.
Se interviene la transazione
I problemi di questa impostazione emergono anche quando la “parte attrice”, ossia chi ha promosso il giudizio, stipula un accordo transattivo con il convenuto e abbandona il contenzioso. La proposta prevede che gli aderenti possano continuare la causa collettiva entro un termine: ma come si decide chi assume il ruolo di “parte”? Ancora il primo arrivato? Meglio sarebbe che un leading plaintiff selezionato con criteri razionali ed equi possa stipulare una transazione vincolante per tutti, assicurando parità di trattamento ai danneggiati, soggetta ad approvazione da parte della maggioranza degli aderenti, salvo naturalmente casi patologici di conflitto di interessi e frode.
Più in generale, sarebbe preferibile prevedere una chiara alternativa tra adesione all’azione di classe e azione individuale, di modo che la prima escluda la seconda. Sarebbe importante anche per consentire al convenuto di stimare il possibile risarcimento dovuto e favorire accordi transattivi efficienti ed equi per tutte le parti.
Il testo originariamente proposto dai firmatari del disegno di legge Gitti, Ermini e Verini prevedeva meccanismi migliori su questi punti, che però si sono persi nelle negoziazioni parlamentari. Speriamo che il Senato li recuperi.
 

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Il Punto

  1. Daniele Muritano

    I “legal transplants” sono sempre complicati. Quello della class action è complicatissimo. Il trapianto andrebbe però fatto
    per intero e non in modo parziale. Penso, ad esempio, al fatto che in USA le spese legali sono tutte a carico dell’avvocato, vigendo lì il sistema della contingent fee (per cui se si perde la causa il cliente non dovrà pagare nulla). Forse il fatto che in Italia non esista tale sistema (il divieto del patto di quota lite era stato abolito, poi è stato reintrodotto, se non sbaglio) potrebbe essere un deterrente alla proposizione di un’azione di classe da parte di chi non ha interessi rilevanti.

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