Il governo ha chiesto all’Europa di attivare la clausola di flessibilità sugli investimenti. Ma le cifre indicate nei documenti per il cofinanziamento nazionale sono ottimistiche. Risorse effettivamente spese nel ciclo precedente e misure inadeguate a risolvere i problemi che ne ritardano l’impiego.
Una clausola europea per gli investimenti
Il nostro paese ha richiesto alla Commissione europea l’attivazione della clausola degli investimenti per l’anno 2016, relativa ai cofinanziamenti nazionali di progetti finanziati dall’Unione Europea. Ritiene infatti che siano soddisfatte le condizioni richieste:
- un valore dell’indebitamento netto nominale rispetto al Pil inferiore al 3 per cento;
- condizioni congiunturali sfavorevoli con un output gap negativo maggiore dell’1,5 per cento del Pil;
- un ammontare complessivo di investimenti fissi lordi nel 2016 non inferiore all’anno precedente.
Se approvata, la clausola di flessibilità permetterà di considerare fuori dal calcolo dell’indebitamento netto le spese di cofinanziamento nazionale, stimate dal governo in 5.150 milioni, pari allo 0,3 per cento del Pil (il cofinanziamento nazionale si riferisce a un ammontare complessivo di investimenti di 11.300 milioni). In questo modo, sarà possibile finanziare altre misure contenute nel disegno di legge di stabilità per un importo equivalente.
Quanto abbiamo speso in passato
Il Documento programmatico di bilancio contiene le motivazioni che consentirebbero di ottenere questo tipo di flessibilità e presenta gli importi dei cofinanziamenti nazionali per categorie di spesa e per tipo di fondi.
In particolare, il cofinanziamento nazionale riferito ai programmi finanziati con fondi strutturali ammonta a 3.050 milioni su 5.150 (il residuo si riferisce al piano Juncker e al programma Connecting European Facility). In nessun caso, sono però indicati i singoli progetti, i loro cronoprogrammi e le previsioni di spesa per ciascuno, che pure sono informazioni chiave, insieme con l’andamento della spesa nei precedenti cicli di programmazione.
Negli ultimi cicli di programmazione comunitaria non vi è stato alcun segnale di miglioramento dell’efficienza della spesa, né di una accresciuta capacità amministrativa di utilizzo delle risorse. Anzi, si è registrato un progressivo ridursi delle quote di cofinanziamento nazionale motivato proprio dai crescenti ritardi di spesa e dal rischio incombente di perdere finanziamenti europei.
Nel ciclo di programmazione 2007-2013 la spesa complessiva (fondi strutturali e cofinanziamento nazionale) è stata pari a zero nei primi due anni e di circa l’8 per cento della dotazione finanziaria disponibile nel terzo anno. Vale poi la pena di ricordare che alla fine del 2013 la spesa era di poco superiore al 50 per cento della dotazione finanziaria complessiva.
Applicando le medesime percentuali al ciclo 2014-2020 si ottiene:
2014: nessuna spesa
2015: nessuna spesa
2016: 8 per cento di 64 miliardi (dotazione complessiva del settennio), pari a 5.120 milioni.
Nel 2016 ci si dovrebbe attendere quindi una spesa globale di 5.120 milioni, di cui però solo il 32 per cento equivale a “cofinanziamento nazionale”, secondo quanto stabilito dalla delibera del Cipe del 28 gennaio 2015, ossia 1.638 milioni.
A parità di condizioni tra i due cicli di programmazione – assunzione assolutamente “realistica” in questo contesto – ci si deve dunque attendere che nel 2016 si spenderanno 1.638 milioni di cofinanziamenti nazionali relativi a programmi finanziati con fondi strutturali e non 3.050 milioni come dichiarato dal governo (Dpb, tab. I.1.3, p. 12).
Analoghe ipotesi “al ribasso” si possono fare in merito agli altri due programmi comunitari considerati – piano Juncker e Connecting European Facility – per i quali risulta ancora più azzardato sostenere gli importi di cofinanziamento nazionale riportati nel Documento programmatico di bilancio (1.050 milioni per ciascuno dei due).
Interventi che non risolvono i problemi
L’eccessivo ottimismo del governo deriva dal fatto che i ritardi e la scarsa capacità di spesa vengono prevalentemente attribuiti alla insufficiente disponibilità delle risorse o a strozzature che condizionano la gestione di quelle cofinanziate a livello regionale. Per rimediarvi, il disegno di legge di stabilità ha allentato i vincoli del patto di stabilità interna, ha reso più fluida la gestione finanziaria degli interventi europei costituendo appositi organismi strumentali presso le regioni con relative contabilità speciali e ha previsto anticipazioni di cassa per le regioni (articolo 40). Sono state inoltre assicurate risorse per il completamento di progetti finanziati dall’Unione Europea nel ciclo 2007-2013.
Tuttavia, queste misure sono solo parzialmente efficaci e dipendono da una cattiva interpretazione delle problematiche di spesa: non toccano infatti questioni chiave quali le modalità di programmazione degli interventi, l’identificazione e la predisposizione dei progetti nonché la loro selezione.
Su un piano tecnico, l’attivazione della clausola degli investimenti non si conquista dichiarando un punto più alto di quanto si ha in mano. Anche perché negli ultimi venti anni tutti i tentativi di accelerare la spesa in conto capitale partendo da presupposti analoghi a quelli adottati oggi dal governo o comunque da interpretazioni poco realistiche sono miseramente falliti. Inoltre (e qui anche su un piano politico), cosa accadrebbe se ex post i cofinanziamenti risultassero inferiori a quanto dichiarato inizialmente?
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