La crisi del Venezuela è arrivata alle soglie del default. Per l’evoluzione della situazione sarà decisivo l’atteggiamento dei due principali creditori: Russia e Cina. Intanto, i venezuelani fanno i conti con nuovo calo del Pil e inflazione alle stelle.

Alla fine arrivò il default

La crisi venezuelana è entrata nella fase finale. Dopo mesi di crescenti difficoltà, il governo di Nicolás Maduro non ha onorato il pagamento di alcune cedole relative al proprio debito. Di fatto, si è aperta così una crisi sovrana, la cui evoluzione dipenderà non solo dalle azioni intraprese dal governo di Caracas, ma anche dall’atteggiamento dei due principali creditori del paese: Russia e Cina.

Il 16 novembre, alla terza riunione convocata nell’arco di poche settimane, la Isda (International Swaps and Derivatives Association) ha ufficialmente sancito quanto ci si aspettava da tempo: il default sul debito sovrano da parte del governo venezuelano, responsabile del mancato pagamento di cedole per oltre 200 milioni di dollari.

La decisione è rilevante perché certifica ufficialmente l’esistenza di un credit event che fa scattare il pagamento della assicurazione per gli acquirenti di Cds. E segue una precedente e analoga dichiarazione di Standard&Poors che, dopo aver ridotto il rating sul debito sovrano venezuelano in valuta al livello SD (Selective Default), ha prospettato altri default nei prossimi tre mesi.

Tuttavia, è difficile prevedere quali saranno le mosse del governo di Caracas nei mesi a venire. La teoria più semplice suggerisce che lo stato sovrano potrebbe sospendere di nuovo il pagamento di alcune cedole a causa della sua oggettiva incapacità di ripagare il debito. Alcune recenti dichiarazioni di Maduro fanno pensare a una scelta di questo tipo. Allo stesso tempo, il governo potrebbe decidere di non ripagare il suo debito per motivi meramente opportunistici: se il default comporta un risparmio di risorse che supera il valore di espropriazioni e sanzioni messe in atto dai creditori danneggiati, dichiararlo conviene. Ma per il Venezuela è uno scenario che appare oggi poco realistico.

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Russia e Cina: due creditori diversi

L’evoluzione della crisi dipenderà dunque soprattutto dall’atteggiamento tenuto da Cina e Russia, che per motivi diversi sono diventati negli ultimi anni tra i principali creditori del Venezuela.

La Cina ha un crescente fabbisogno petrolifero da soddisfare e a partire dallo scoppio della crisi finanziaria globale ha concesso crediti (del tipo loans for oil) al Venezuela, che ne è ricco, per oltre 60 miliardi di dollari. Il flusso di pagamenti garantito da Pachino corrisponde a più di mille barili di greggio al giorno. Tuttavia, le crescenti difficoltà che lo stato venezuelano si è trovato ad affrontare hanno da tempo convinto le autorità cinesi (e il loro braccio operativo costituito dalla China Development Bank) a non aprire ulteriori linee di credito e anzi a prodigarsi in “suggerimenti” sulle politiche di austerità da adottare per favorire il rimborso del debito estero.

Ben diverso è il caso della Russia, meno esposta per valore complessivo di prestiti erogati al governo di Caracas e più incline a negoziarne una ristrutturazione. La prima operazione concordata tra i due paesi prevede una riprofilazione della spesa per interessi (che è stata estesa su di un periodo di dieci anni e di fatto sospesa per i primi sei) relativa a un prestito in scadenza di oltre 3 miliardi di dollari. Una mossa che sembra giustificata più da considerazioni di carattere geo-politico che da una attenta valutazione della condizione di sostenibilità del debito estero del paese latino-americano.

La conclusione della crisi sovrana venezuelana appare comunque lontana. Anche perché la gestione di una eventuale ristrutturazione del debito è resa ancora più complicata dalla nomina a negoziatore di Tareck El Aissami, vice-presidente del Venezuela nonché sospettato (secondo le accuse della amministrazione Usa) di essere coinvolto in attività di narcotraffico. L’accusa impedisce ai rappresentanti delle istituzioni finanziarie statunitensi di sedersi al tavolo delle trattative: i rischi per chi lo facesse comprendono persino l’incarcerazione e comunque multe che potrebbero ammontare fino a 5 milioni di dollari.

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Nel frattempo, il Pil del Venezuela continua a registrare una caduta libera, mentre l’inflazione sta letteralmente volando. Secondo l’ultimo Rapporto del Fmi, nel 2018 il prodotto interno lordo diminuirà del 6 per cento (quinto anno consecutivo di calo), mentre l’inflazione supererà il 2.500 per cento: Si tratta di un’altra forma di espropriazione – occulta in questo caso, al contrario di quanto accade con il default sul debito estero – che grava sui cittadini residenti del Venezuela, sempre più sfiniti dalla carenza di beni alimentari e medicinali.

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