La riforma del Patto di stabilità interno è da anni in cima all’agenda politica. Finora, tuttavia, i correttivi introdotti hanno seguito la logica della toppa, senza risolverne le criticità strutturali. Ora la palla passa al prossimo Governo. E le promesse da campagna elettorale si sprecano.
TUTTI I DIFETTI DEL PATTO
Il Patto di stabilità interno è lo strumento a disposizione dello Stato per garantire che gli enti territoriali (Regioni, province e comuni) diano il loro contributo al risanamento dei conti pubblici. È stato introdotto alla fine degli anni Novanta, non a caso in coincidenza con l’avvio dell’euro. Da allora, ha subito continue modifiche, fino a trovare un assetto più o meno stabile solo nell’ultimo quinquennio. Oggi, il Patto di stabilità interno segue regole diverse per le Regioni (cui sono imposti limiti massimi di spesa) e per gli enti locali (che devono rispettare obiettivi espressi in termini di “saldo” fra entrate e uscite).
L’asimmetria è una delle tante anomalie di uno strumento che, a detta di tutti gli amministratori locali di qualunque colore politico, strozza gli investimenti pubblici, “spiazzandoli” rispetto alle spese correnti. Il trend è confermato da tutte le statistiche, anche se mancano evidenze precise su quanto ciò dipenda dal Patto di stabilità interno e non da altri fattori.
Da tempo tutte le forze politiche affermano la necessità di una revisione complessiva del Patto di stabilità interno: il Governo Monti l’aveva annunciata ufficialmente al Parlamento e aveva inserito una apposita norma programmatica nel decreto “salva Italia”. Ma poi non se n’è fatto nulla. Non si è neppure riusciti a scongiurare l’estensione del Patto di stabilità interno ai piccoli comuni, prevista da una norma del Governo Berlusconi del 2011 a partire dal 1° gennaio di quest’anno. Per una strana coincidenza, si tratta della stessa data da cui è scattato per tutte le pubbliche amministrazioni l’obbligo (imposto da Bruxelles) di pagare entro 30 giorni. Una chimera, nell’attuale contesto della finanza locale, dove i ritardi medi nei pagamenti pubblici si aggirano sugli otto mesi.
CORRETTIVI COSTOSI
In attesa del Godot della riforma organica, la disciplina del Patto di stabilità interno ha continuato a subire una miriade di micro-interventi di modifica: sono state introdotte deroghe per specifiche voci o “ad comunem”, complessi meccanismi di compensazione a livello territoriale, incentivi per gli enti “virtuosi” in parte finanziati con le sanzioni inflitte a quelli “cattivi”. Si tratta, in genere, di correttivi estemporanei e privi di una coerenza sistematica, perlopiù frutto dell’approssimazione con cui vengono redatti i provvedimenti che li contengono e che spesso vengono attuati tardivamente o addirittura restano lettera morta. Gli esempi potrebbero essere infiniti: basta scorrere l’elenco delle esclusioni previste dalla legislazione vigente per trovare “spese per investimenti infrastrutturali” (decreto attuativo mai emanato), “spese per la protezione civile” (manca una legge), “spese per i beni oggetto del federalismo demaniale” (mai decollato). Ma nel “bestiario” del Patto di stabilità interno troviamo anche sconti che arrivano sistematicamente a esercizio finanziario chiuso o che vengono distribuiti (dallo Stato e dalle Regioni) senza alcun criterio omogeneo, premiando sia le spese buone che quelle improduttive.
In questo quadro, crolla anche l’alibi spesso evocato per giustificare l’immobilismo, ovvero la mancanza di copertura finanziaria, che solo un allentamento dei vincoli europei, con l’introduzione dell’agognata “golden rule”, potrebbe consentire. Nel 2012, ad esempio, fra bonus agli enti “virtuosi”, premialità tardive, “regionalizzazione incentivata” e “Patto orizzontale nazionale”, la logica della toppa è costata oltre 1 miliardo di euro, poco meno di un terzo del peso (ex ante) della manovra sui comuni attuata tramite il Patto di stabilità interno. Risorse ingenti, ma distribuite a “pioggia”, che se concentrate su obiettivi chiari e misurabili (a puro titolo di esempio, un serio programma nazionale di edilizia scolastica) avrebbero potuto essere impiegate assai meglio.
Ora la palla passa al prossimo Governo e naturalmente, in questa fase di campagna elettorale, le promesse di riforma si sprecano. Servirebbe davvero un colpo di reni della politica, in una materia in cui tecnici e tecnicismi la fanno ormai da padroni. Prerogativa della politica, infatti, dovrebbe essere l’individuazione delle vere priorità: si chiama “programmazione”, ma è una disciplina sulla quale il nostro paese è stato finora piuttosto debole.
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Guido
Naturalmente per le destre (e per chi loro rappresentano) programmazione fa rima con pianificazione, una bestemmia, così come magistratura e stato fanno rima, si fa per dire, con comunismo: quindi poco centralismo e controlli il meno possibile. Per le sinistre “territorio è bello”: 20 regioni, 120 province, 10.000 comuni per non parlare degli enti intermedi, vale a dire un surplus di regole, burocrazia, lacci e lacciuoli. E se qualcuno, in campagna elettorale, parlasse anche di razionalizzazione, di ammodernamento (semplificazione ragionevole e ragionata) delle varie Amministrazioni pubbliche? Un’utopia aspettarselo dai partiti, il Monti di turno poi si vedrebbe alla prima occasione ostracizzato: troppi gli interessi in gioco. Piuttosto qualcuno dovrebbe tenere sotto stress il prossimo Parlamento, qualunque esso sia, perchè non si addormenti troppo presto parlandosi addosso: magari presentandogli l’agenda dei lavori ogni lunedì mattina.
antonio petrina
IL PSI nella versione attuale a competenza mista è stato applcato in forma rigida e “stupida” nel ns ordinamento dall’art. 28 L. 448/1998 :l’applicazione domestica della direttiva europea del patto di crescita (PSC del 1997 ) è sancita nel Fiscal Compact ( FC non entrato in vigore finora ) e nei 2 regolamenti comunitari del 95 e 97, preventivi e correttivi del PSC del ’97 e consacrato nel Tratto di Lisbona del 2007.
La riforma del PSI è stata promessa nell’art. 28 L.214/2011 ed a voce dopo l’appprovazione del FC e così l’architettura del PSI è diventata “barocca” (Giarda,2004)