Un accordo per chiudere la guerra commerciale tra Usa e Cina è sempre più lontano. Non solo gli americani non hanno alcun interesse a concluderlo, ma forse oggi non ci sono neanche le condizioni per ipotizzarlo. Il rischio è che il conflitto si allarghi.
Nessun accordo in vista
L’ennesimo annuncio di Donald Trump di un imminente accordo con la Cina per rientrare dalla guerra commerciale iniziata 17 mesi fa è andato in fumo. Di fase iniziale di un accordo tra le parti non si è vista traccia, lasciando tutti delusi e sfiduciati.
Ormai sembra chiaro che gli annunci del presidente Usa sono più che altro volti a mantenere alte le aspettative dei mercati e delle imprese e a tenere in scacco la controparte. Ma non è chiaro quale sia, dietro le quinte, da un lato il vero interesse a concludere un accordo, e dall’altro, quale sia la reale probabilità di trovare termini condivisi.
La volontà politica di arrivare a un’intesa in tempi brevi, oggi, non sembra esserci. La batteria di dazi già imposti dagli Stati Uniti e l’ulteriore escalation prevista nei prossimi giorni sono uno strumento perfetto per costringere la Cina ad accettare di sedersi ai tavoli negoziali sui temi cari a Washington (e condivisi in gran parte dall’Europa), che invece Pechino ha da sempre regolarmente evitato di affrontare e sui quali ha mostrato di non voler trattare. Pertanto, non pare esserci alcun incentivo per Trump di arrivare davvero a un accordo che riguardi soltanto i dazi, che sono usati come leva per pretendere interventi più radicali da parte del governo cinese.
La questione della proprietà intellettuale
Il tema principale del contendere è quello del furto di proprietà intellettuale: gli Stati Uniti accusano le aziende cinesi di perpetrarlo attraverso le joint-venture in cui le imprese occidentali sono costrette a entrare per poter operare in Cina. Le collaborazioni produttive e tecnologiche sono da sempre un veicolo di apprendimento per le più arretrate imprese cinesi, che cercano in tal modo di migliorare le proprie capacità senza perdere il controllo dell’azienda. È evidente che le collaborazioni permettono un’acquisizione surrettizia di competenze tecnologiche, senza che ciò sfori in pratiche illecite. L’importazione dagli Stati Uniti di componenti high-tech destinate al settore dell’elettronica di consumo, in cambio di ricche royalty, non si configura come furto, ma come scambio. In parallelo, però, vi sono molti modi poco leciti o del tutto illeciti di appropriarsi di tecnologie altrui, a cui la Cina è sempre più propensa. L’intento predatorio di alcune pratiche è indubbio: l’esempio più recente è la legge, in vigore dal 1° dicembre, che richiede a tutte le imprese operanti in Cina di garantire l’accesso incondizionato alle informazioni aziendali, incluse quelle relative all’operatività fuori confine.
In realtà, il tema della proprietà intellettuale è la punta dell’iceberg di una contesa molto più profonda tra due sistemi economici e politici agli antipodi. Infatti, il cosiddetto furto di proprietà intellettuale non è recente, è iniziato sin dai primi anni di apertura della Cina alle imprese estere. Ma solo nel 2015, quando Xi Jinping ha dichiarato di voler sfidare apertamente gli Stati Uniti nella corsa alla supremazia tecnologica, Washington si è resa conto di aver creato indirettamente non solo un concorrente agguerrito, ma un vero e proprio nuovo “rivale sistemico”. E non è di certo la semplice retromarcia sui dazi a risolvere il problema.
Questo ci porta alla seconda considerazione in merito alla possibilità che si arrivi mai a un accordo. Trump vuole isolare la Cina, metterla in difficoltà economica, per impedire che diventi un rivale aggressivo e non più pacifico, ma pretende l’impossibile, cioè che Pechino accetti di cambiare il proprio sistema.
L’attuale guerra commerciale è iniziata per una situazione strutturale, non per un problema contingente, pertanto non offre facili soluzioni. Secondo fonti dei due lati, per arrivare a una bozza di primo accordo la Cina pretenderebbe il rientro da tutti i dazi, mentre al più gli Stati Uniti possono pensare di non procedere all’ulteriore estensione prevista per il 15 dicembre. Le difficoltà di arrivare a un accordo sono evidenti anche guardando alle “richieste” presentate da Trump, che includono aperture selezionate ad alcune prodotti statunitensi, ma non si spingono verso proposte più costruttive, come per esempio quella di iniziare una riforma seria dell’Organizzazione mondiale del commercio. Dunque, non solo mancano gli incentivi a chiudere un accordo, ma non è neanche chiaro se vi siano davvero le condizioni per poterlo raggiungere.
Una situazione molto tesa
L’approvazione da parte del Congresso americano, in novembre, di due decreti, uno a favore del movimento democratico di Hong Kong, l’altro per impedire la fornitura di materiale alla polizia per il controllo delle manifestazioni di massa, complicano ulteriormente le relazioni bilaterali.
Il primo decreto, di sostegno alla protesta di Hong Kong (condivisibile nelle motivazioni), corrisponde a una profonda ingerenza in questioni interne, volta a screditare il governo cinese, soprattutto perché accompagnata dalla diffusione di una serie di notizie su attività in violazione dei diritti umani nello Xinjiang (un problema di vecchia data, ma sollevato soltanto ora).
Stati Uniti e Cina sono dunque sempre più in rotta di collisione. Per ora, la differenza tra i due è che Pechino, sebbene non mostri una sensibilità politica particolarmente spiccata, cerca di smorzare i toni e di prendere tempo. Nelle vicende di Hong Kong ha dimostrato senza alcun dubbio di mantenere i nervi ben saldi e un controllo quasi totale della sicurezza interna, mentre Washington cerca in ogni modo di pungolare la controparte per indebolirla e provocare una reazione diretta. Il blocco imposto all’attracco a Hong Kong per le navi americane non è senza precedenti, ma oggi si innesta in una situazione molto più tesa. Forse più sensato chiedersi non tanto quali siano le probabilità di un accordo commerciale, quanto quelle di un conflitto più esteso.
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