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Arrivano i titoli NextGen: saranno il safe asset del futuro?

Grande successo per la prima emissione di titoli per finanziare il Next Generation EU. La speranza è che si tratti di un primo passo verso la creazione di un titolo di debito pubblico europeo. Ma la strada è ancora lunga e non mancano le insidie.

Buone notizie dalla prima emissione

A quasi un anno dall’accordo raggiunto nel Consiglio europeo, il Next Generation EU è finalmente sulla pista di lancio. Il 15 giugno la Commissione ha approvato i primi 5 piani nazionali di resilienza e ripresa (per l’Italia l’approvazione è prevista per il 23 giugno, una settimana prima della scadenza) e contemporaneamente ha collocato sul mercato la prima tranche del debito europeo che servirà per finanziare il piano. Si tratta di un titolo decennale per 20 miliardi di euro, a cui seguiranno altre emissioni nei prossimi mesi per complessivi 100 miliardi nel 2021, di cui 80 miliardi a lungo termine, con scadenze dai 3 ai 30 anni, e 20 miliardi a scadenze più brevi. Le risorse raccolte nel 2021 serviranno per finanziare l’anticipo previsto ai paesi del 13 per cento dei fondi complessivi della Recovery and resilience facility (circa 25 miliardi per l’Italia).  

Nei prossimi cinque anni, fino al 2026, la Commissione dovrà poi emettere titoli per il residuo valore del piano, circa altri 630 miliardi se tutti i paesi sfrutteranno fino a fondo le possibilità di indebitarsi nei confronti dell’Ue. Va ricordato infatti che il Ngeu ha una dimensione complessiva di 750 miliardi, 390 dei quali verranno attribuiti ai paesi sotto forma di trasferimenti e il residuo sotto forma di prestiti. Tutti sono finanziati con emissioni di debito da parte dell’Unione Europea, ma la prima parte è debito a valere sul bilancio dell’Ue (e verrà quindi restituito gradualmente nei prossimi 37 anni dai paesi membri sulla base della loro quota di finanziamento del bilancio europeo, tramite o contributi o la cessione di risorse fiscali), mentre i secondi sono debito dei paesi stessi nei confronti dell’Unione Europea e dovranno essere restituiti a quest’ultima. Al debito europeo emesso per finanziare il Ngeu si aggiungono poi 100 miliardi emessi per il fondo Sure, che sono stati già quasi completamente opzionati dai paesi europei. Complessivamente, l’Ue sarà dunque nel prossimo quinquennio il principale emittente di titoli in euro. 

L’altra buona notizia è che la domanda è stata molto superiore all’offerta, così che il rendimento del decennale, allo 0,09 per cento, si è collocato in una posizione intermedia tra il rendimento del Bund tedesco (32 punti base in più) e quelli degli altri titoli nazionali. Segno che i mercati considerano il debito europeo solo marginalmente più rischioso di quello tedesco, benché implicitamente garantito da molti altri paesi con minore merito di credito. A questi tassi è più conveniente per alcuni paesi (compreso il nostro) prendere soldi a prestito dall’Unione Europea piuttosto che sul mercato; ed è probabile che questa convenienza aumenti ulteriormente con le emissioni a scadenze più lunghe, dove i paesi ad alto debito fanno più fatica a indebitarsi. Dalle informazioni disponibili, questo debito – così come il debito Sure – non dovrebbe essere privilegiato rispetto al debito nazionale, anche se naturalmente l’Unione Europea ha numerosi strumenti per garantirsi il pagamento da parte dei paesi membri.

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Le prospettive future

A parte i vantaggi relativi per i diversi gruppi di paesi, il debito europeo può anche potenzialmente offrire numerosi altri benefici al funzionamento dell’unione monetaria. Come noto, questa manca di un safe asset di livello europeo. L’introduzione di un titolo di questo tipo risponderebbe all’esigenza di diversificazione del rischio presente nei portafogli di titoli di stato delle banche. Essi sono attualmente influenzati da un forte home bias: le banche di tutti i paesi privilegiano generalmente le obbligazioni governative domestiche a quelle emesse da altri paesi. Un safe asset europeo sarebbe invece un titolo con un rischio diversificato essendo garantito dai diversi paesi dell’Ue. La disponibilità di questo titolo potrebbe risolvere un problema di regolamentazione molto delicato: quello dei requisiti patrimoniali a fronte dei titoli di stato, che alcuni paesi (tra cui la Germania) vorrebbero introdurre ma altri (tra cui il nostro) vedono come fumo negli occhi, per l’impatto che essi avrebbero sui bilanci delle banche e sul mercato del debito pubblico. Una delle finalità di questi requisiti è quella di correggere l‘home bias e la connessa concentrazione del rischio. Questa finalità potrebbe essere raggiunta se le banche convertissero parte del loro portafoglio-titoli dalle obbligazioni governative domestiche al safe asset europeo, che resterebbe esente da requisiti patrimoniali.

Il safe asset europeo potrebbe essere acquistato anche dalla Banca centrale europea, correggendo così un’anomalia dell’assetto istituzionale europeo, che ha contribuito a ritardare l’introduzione del Quantitative Easing nell’area euro rispetto a quanto avvenuto in altri paesi: l’assenza di un debito federale. Ciò ha posto la Bce nella difficile posizione di dovere scegliere come distribuire i suoi acquisti tra i titoli nazionali emessi dai diversi governi della zona euro. Ha anche generato il sospetto che il Qe potesse tradursi in un vantaggio per alcuni paesi ad alto debito, tanto da indurre più volte alcuni cittadini tedeschi a fare ricorso contro le decisioni della Bce: ricorsi da cui hanno avuto origine le tristemente note sentenze della Corte costituzionale tedesca. La presenza di un debito federale ci risparmierebbe questi problemi.

Un safe asset europeo rafforzerebbe anche il ruolo internazionale della valuta europea, consentendo ai paesi aderenti di sfruttare i privilegi di cui gode attualmente il dollaro come valuta di riserva e mezzo di pagamento internazionale. In modo improprio, finora questo ruolo di safe asset è stato svolto dal Bund tedesco, con il problema che l’emissione di questo titolo dipende esclusivamente dalle decisioni di un’unica sovranità nazionale, per quanto importante. Una sovranità oltretutto ossessionata dalla sacralità del bilancio in pareggio che ha condotto negli ultimi anni ad una progressiva riduzione dei titoli tedeschi sul mercato, con risultante riduzione dei rendimenti. Il debito europeo, come sostituto stretto per i mercati del Bund tedesco, può contribuire a ridurre in parte queste distorsioni.

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Serve un bilancio comune

Ma è anche opportuno non farsi soverchie illusioni. Per prima cosa, la dimensione del debito europeo (gli 800 miliardi di cui sopra) è comunque limitata rispetto a quanto sarebbe necessario; si tratta di solo circa il 5 per cento del Pil europeo, mentre secondo le stime sarebbe necessario una quota attorno al 35-40 per cento perché possa compiutamente svolgere il ruolo di safe asset. In secondo luogo, almeno per il momento, queste emissioni di debito europeo sono previste come una tantum; né il Ngeu né il Sure sono concepiti come programmi permanenti, e tutto il debito ora creato dovrebbe essere restituito entro 37 anni.  

Naturalmente, è possibile che questo non avvenga e si decida invece di rinnovarlo alla scadenza e impiegarlo a sostegno di politiche europee; ma questo richiede, oltre la prova provata che il Ngeu ha funzionato, cioè che ha raggiunto i suoi obiettivi nei paesi più beneficiati (a cominciare dal nostro), una evoluzione in senso federale dell’Ue che non è affatto scontata. Il modo macchinoso con cui si è giunti a finanziare il Ngeu (con tutti i paesi che hanno dovuto decidere unanimemente di impegnarsi a garantire maggiori risorse al prossimo bilancio europeo di quanto questo spenderà nei prossimi 7 anni, così da creare una headroom che l’Ue ha potuto utilizzare come garanzia agli investitori per indebitarsi) e i ritardi con cui si è passati dalla decisione politica all’attuazione del Ngeu mostrano le difficoltà per l’Unione di perseguire questa strada nel presente contesto istituzionale. Alla fine della fiera, un debito europeo richiede un bilancio europeo finanziato con risorse proprie ed un meccanismo decisionale non dipendente dall’accordo unanime dai paesi membri. 

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Il Punto

  1. Henri Schmit

    Non sono d’accordo con questa narrazione. Quello che l’UE sta emettendo è già “debito pubblico europeo”, solo che non si sa se una tantum o come inizio di una nuova modalità. Il pricing sul mercato è normale, cioè un po’ più oneroso del Bund, la sua maggiore garanzia, nessuno poteva aspettare altro. Tutto riposa in definitiva sempre sulle spalle dei contribuenti: o su tasse dirette (e.g. la quota iva ceduta all’Ue, purtroppo ridotta nel tempo) o su contributi degli SM (prelevati sempre sugli stessi contribuenti). Il vantaggio del NGEu per l’Italia non è la forma della copertura (emissioni europee comuni, quindi FUTURI prelievi sugli stessi contribuenti o tasse “europee” pagate dagli stessi) ma l’allocazione differenziata, a beneficio di alcuni e a spese e rischio di altri. I contribuenti D e NL che capiscono il rischio e provano a tutelarsi; il tribunale costituzionale tedesco li ha dato ragione, finora. Il vero problema dell’Ue non è il debito comune, ma le politiche fiscali divergenti inefficienti inique e irresponsabili di SM come l’Italia che fanno aumentare il costo del debito comune e che impediscono all’Ue di diventare un’organizzazione federale più robusta, fondata sulla convergenza, la compliance, l’efficienza e l’equità di tutti gli SM. Gli autori invece, dando la colpa delle difficoltà nel processo federale europeo a D e NL, chiedono (forse inconsapevolmente) la continua copertura delle inadeguatezze italiane ai contribuenti degli Stati più virtuosi. Bisogna cambiare e cominciare a fare le riforme strutturali di cui si parla da decenni.

  2. Ezio Pacchiardo

    Le manovre finanziarie in corso. In USA l’inflazione ha raggiunto il 5%, ben oltre il magico 2% ritenuto il livello preferito, ma la FED ha già da tempo detto che l’importante è che il 2% sia la media di un periodo di tempo lungo oltre l’anno. Su questa stessa falsariga si sta muovendo la BCE, che da un lato lascia crescere l’inflazione oltre il 2%, e dall’altro continua con il piano QE (Quantitative Easing) di acquisti dei titoli di stato dando così liquidità alle banche. Forse questa manovrra così fatta sembra miri a ridurre da un lato l’ammontare dei depositi dei privati, che sono cresciuti di molto in UE in questo ultimo anno. In questo modo i depositi, assorbiti dall’inflazione verrebbero rimessi in circolo nell’economia, e andrebbero a sostenere le imprese che fruirebbero dei maggiori introiti dovuti all’aumento dei prezzi al consumo. Dall’altro lato con il QE si sosterrebbero le banche compensando i flussi in negativo che queste avrebbero a causa della riduzione dei depositi dei privati assorbiti dall’inflazione. Il problema è che in USA, e accadrà anche in UE, i consumatori a seguito dell’aumento dei prezzi acquistano meno. Così accadendo diventa difficile risanare i conti.

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