Se la Cop26 sia stata un successo o un insuccesso dipende dalla prospettiva con cui la si giudica. Alcuni risultati importanti ci sono stati, anche se si tratta di annunci. Ma questa è la natura stessa delle Cop. Le decisioni concrete vanno prese altrove.

Il bicchiere mezzo pieno

La Cop di Glasgow, che ci ha fatto sperare e disperare, è finita. Un po’ come per le precedenti, nella prima settimana è stata una kermesse aperta dalla comparsata di capi di stato e di governo (non tutti), ma è nella seconda settimana che il gioco si è fatto duro. Se sia stata un successo o un fallimento dipende dalla prospettiva. È stata un successo se la si giudica rispetto alle precedenti, un insuccesso se la si giudica rispetto alle decisioni richieste dalle condizioni attuali del pianeta e dalle sue prospettive.

Quello che è stato portato a casa di più significativo sono tre cose: la riaffermazione dell’obiettivo di riscaldamento a +1,5°C; la fissazione di un impegno di riduzione delle emissioni del 45 per cento entro il 2030; la proposizione di piani volontari di riduzione delle emissioni (le Ndcs) più ambiziosi da sottoporre a verifica entro un anno, alla prossima Cop27 di Sharm El-Sheikh in Egitto.

I sostenitori del bicchiere mezzo pieno citano poi l’accordo sulla riduzione delle emissioni di metano, un gas serra dall’altissimo potere riscaldante; l’inserimento nel “Patto sul clima di Glasgow”, per la prima volta, del riferimento alle fonti fossili di energia e al carbone, parole finora bandite dai comunicati finali; l’accordo per fermare la deforestazione; la rinnovata promessa sui 100 miliardi annui del Fondo per il clima; il reiterato impegno sugli indennizzi ai paesi più vulnerabili, il cosiddetto “loss and damage”.

Il bicchiere mezzo vuoto

Nel bicchiere mezzo vuoto altri notano che, vista la crescente tensione sul tema degli ultimi anni e mesi, all’ultimo minuto l’India si è impuntata su una preposizione che ha cambiato faccia al comunicato finale della Cop, passando dal “phasing out” al “phasing down” del carbone, cioè dall’eliminazione alla semplice riduzione del suo uso. Ed è stata giudicata negativamente anche la promessa sui 100 miliardi di dollari: la decisione risale alla Cop15 di Copenhagen e i 100 miliardi avrebbero dovuto essere annui, mentre finora non si è arrivati a totalizzarli nemmeno una sola volta. E poi giudizi negativi hanno riguardato il tira e molla del “loss and damage”, promesso dai paesi ricchi, ma lontano dall’essere quantificato e realizzato. E ancora la firma di Jair Bolsonaro sotto l’accordo sulla deforestazione.

La principale novità di questa edizione sono stati i giovani, la cui voce si farà sentire ancor più forte andando avanti. La pubblica opinione li seguirà, ma né gli uni né l’altra detengono il potere decisionale. Solo i governi possono decidere. E alla Cop di Glasgow l’altra importante novità, come il classico coniglio dal cilindro, è stato l’annuncio di un accordo di collaborazione tra Usa e Cina, a partire dal colloquio tra Joe Biden e Xi Jinping del 15 novembre.

Alle Cop contano le parole

Vi sono stati dunque risultati importanti, ma si è trattato pur sempre di annunci. Le Cop, infatti, sono riunioni dove contano le parole e non i fatti e dove oltre 190 paesi devono raggiungere un consenso unanime su ogni singola parola del comunicato finale.

Le Cop di per sé non possono incidere, sono prodromiche. Le uniche due che hanno fatto la differenza sono state nel 1997 a Kyoto e nel 2015 a Parigi. Perché lì si sono presi impegni concreti e vincolanti per tutte le “parti”. A dire il vero, Kyoto prevedeva impegni vincolanti solo per i paesi dell’Annex 1 (i paesi sviluppati di allora) e un meccanismo di penalità nel caso di non osservanza degli impegni. A Parigi invece le Ndcs erano – e sono – solo impegni volontari, pur in presenza di un meccanismo di verifica e revisione dei piani stessi per renderli più ambiziosi. Nelle altre Cop non si sono raggiunti accordi in grado di incidere concretamente sul livello delle emissioni (posto che finora né Kyoto né Parigi sono stati sufficienti). È la ragione che rende inutili queste riunioni annuali dal punto di vista concreto. Non è un caso che i paesi si siano tenuti lontani dal discutere e decidere su proposte concrete pur avanzate da autorevoli scienziati o istituzioni. Ecco due esempi, ma se ne potrebbero fare altri.

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Primo esempio. Qualche anno fa il premio Nobel William Nordhaus ha proposto il “Climate Club”. Partendo dal presupposto che finora gli accordi volontari hanno fallito, il Club del clima riunisce partecipanti che assumono impegni di riduzione delle emissioni e che vengono sanzionati se non li rispettano: ogni iscritto al Club versa una quota e si impegna a porre un tetto alle emissioni di CO2; se sfora, paga una multa. Soprattutto, il Club dovrebbe penalizzare economicamente chi decide di starne fuori, per esempio scoraggiando l’importazione di merci prodotte fuori dal Club e quindi con grandi emissioni di CO2 (come il meccanismo europeo di dazi ambientali attualmente in discussione, noto come Carbon Border Adjustment Mechanism). Modelli come la Ue stessa o il Wto funzionano così. In sostanza si tratta di un circolo di nazioni che si alleano per combattere il cambiamento climatico e “punire” chi del Club non vuol fare parte e continua a inquinare.

Secondo esempio. Partendo dal presupposto per cui la carbon tax è lo strumento singolo più potente ed efficace per ridurre le emissioni di CO2 da combustibili fossili, qualche mese fa il Fondo monetario internazionale ha proposto la creazione di un accordo internazionale sul prezzo minimo del carbonio che integri l’accordo di Parigi. Dovrebbe essere lanciato dai più grandi emettitori, per esempio Cina, India, Stati Uniti e Ue, o addirittura l’intero G20, per poi gradualmente espandersi fino a comprendere altri paesi. Questa tassa minima costituirebbe uno strumento politico efficiente, concreto e di facile comprensione. Se adottato simultaneamente, si condurrebbe un’azione collettiva contro il cambiamento climatico affrontando contemporaneamente in modo decisivo i problemi di competitività. L’accordo dovrebbe essere equo, flessibile e tenere conto delle responsabilità differenziate dei paesi, date, tra gli altri fattori, da emissioni storiche e differenti livelli di sviluppo. La discussione su un prezzo minimo del carbonio è parallela a quella sull’aliquota minima di tassazione internazionale delle società, su cui un accordo è stato appena trovato al G20 italiano.

Ebbene, nulla di tutto questo si è sentito alla Cop di Glasgow. È invece proseguita la tendenza diventata prepotente quest’anno: quella degli annunci. Nel 2021 a tenere banco sono le emissioni nette zero e qualche sorpresa è arrivata dall’Arabia Saudita e dall’India. In vista di Glasgow, alcuni istituti privati o istituzioni internazionali hanno condotto studi, generato scenari e prodotto rapporti su Nze 2050 (Net Zero Emissions). Un brevissimo e parziale inventario include l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), l’Agenzia internazionale dell’energia rinnovabile (Irena), la British Petroleum (Bp), McKinsey. Senza contare la quantità di paesi, istituzioni e imprese private che hanno annunciato l’adozione di obiettivi Nze al 2050.

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La retorica delle emissioni zero ha dato sostanza di fondo a questa Cap, cosicché adesso abbiamo in maniera indiscussa: (1) un “when”, una data di scadenza, il 2050, per qualcuno diventato 2060 o addirittura 2070 (l’India, che ha fatto dividere gli osservatori tra i “meglio di niente” e i “ciao, ciao, tutto inutile”), (2) un “how much”, un quanto, lo zero netto. Poi c’è l’elemento (3) “how”, come? E qui vari istituti e studiosi hanno illustrato più di un percorso per raggiungere l’obiettivo. Su questo si è cominciato subito a dividersi: nucleare sì, nucleare no; cattura e stoccaggio del carbonio sì, cattura e stoccaggio del carbonio no. Ma il vero punto è: adesso e subito bisogna cominciare a prendere provvedimenti concreti. E su questo punto Cop26, come le altre, ha alzato bandiera bianca.

Dove prendere decisioni su proposte concrete

Appare chiaro che proposte concrete come quelle menzionate sopra non possono (più) essere trattate nelle Cop che riuniscono più di 190 paesi. Intendiamoci, è giusto e importante che ognuno possa fare sentire la propria voce, come per esempio quella dei piccoli stati insulari del Pacifico a rischio di essere sommersi. Temi come “loss and damage” e adattamento possono solo essere trattati a questo livello. E dunque le Cop devono proseguire.

Ma la discussione sulla mitigazione, dagli obiettivi alle azioni internazionali e domestiche, deve probabilmente essere condotta da un consesso ridotto e il G20 è il candidato naturale. Andrebbe convocato un G20 “Clima” dove discutere di azioni concrete e di necessarie compensazioni. Infatti, resta il punto di fondo: vi sono paesi come l’India e l’Indonesia che si collocano ancora nella porzione crescente della curva a campana nota come curva di Kuznets. Al crescere del Pil pro capite, le emissioni pro capite continuano ad aumentare finché si arriva al punto di svolta oltre cui si entra nella fase virtuosa della crescita dove – grazie a tecnologie avanzate, all’efficienza energetica e a mutati stili di vita sostenuti da una nuova consapevolezza della pubblica opinione – il perseguimento del benessere materiale e il contenuto impatto ambientale diventano obiettivi compatibili. L’Europa – per fare un esempio – è già entrata in questa fase di “decoupling”, come abbiamo discusso in passato su questo sito. È questo il vero punto che rende paesi importanti e grandi inquinatori riluttanti a seguire decisamente e rapidamente la strada aperta da noi europei. A loro vanno aggiunti paesi, anche molto diversi come l’Arabia Saudita e l’Australia, che ricavano una quota importante del proprio benessere dall’energia fossile e che temono per il proprio futuro e dunque vogliono ritardare il momento di scelte ancora più difficili del taglio delle emissioni.

Se questi sono i nodi di fondo, scioglierli è molto difficile e non basterà un’altra Cop per farlo.

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