Ma davvero, con tutti i problemi che ha lItalia, la riforma della legge elettorale è una questione così rilevante? Se ci sono tanti partiti, non sarà semplicemente perché è la frammentazione della società italiana a richiederlo? E comunque, che centra la legge elettorale con la qualità della politica e in particolare della politica economica? Qualche dato per discuterne. E anche per orientarsi nel dibattito in corso.
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Benvenuta la virata verso il proporzionale nei progetti di riforma elettorale. Nel nuovo contesto federalista, infatti, questo sistema realizza meglio il principio della sovranità popolare. E per raggiungere gli altri obiettivi che una buona legge elettorale si prefigge, bastano alcune regole: premio di maggioranza, soglia minima, indicazione a priori del leader, candidature in un solo collegio, una preferenza assegnata all’elettore. Tutto ciò riguarda la Camera. Solo dopo averlo realizzato si potrà pensare al Senato federale e alle norme per eleggerlo.
Le dimissioni del governo Prodi hanno riportato in primo piano il problema della governabilità del paese. E riproposto la vera questione: il bicamerilasismo perfetto. Tuttavia, se a parole tutti vogliono trasformare il Senato in una camera regionale con compiti limitati, non sembrano esserci né le condizioni politiche né i tempi per una riforma costituzionale di questa portata. Mentre si profila una revisione della legge elettorale incapace di incidere sui difetti fondamentali del sistema. Anche perché nessuno sembra volere un ritorno al maggioritario.
Nel memorandum governo-sindacati sulla riforma della Pa si intende migliorare la qualità dei servizi pubblici e misurare, verificare e incentivare la qualità dei servizi. Tuttavia, riuscirà a tradurre le buone intenzioni in comportamenti virtuosi? La proposta di Authority afferma la cultura della valutazione. Ma dovrebbe spostare il raggio d’azione dai singoli lavoratori alle singole unità amministrative, perché agli utenti interessa misurare la qualità ed efficienza dei servizi. Occorre dare ai dirigenti gli strumenti per esercitare con responsabilità il loro ruolo, in una dialettica equa ed equilibrata fra Pa e sindacati.
La Finanziaria 2007 consente agli enti locali di incrementare le addizionali Irpef e Irap. Che interessano anche i redditi più bassi. Chi le adotta, dunque, minerebbe l’azione redistributiva decisa dal governo. Non è così. Perché l’Irpef come strumento redistributivo ha molti limiti. E perché non è solo con il prelievo che si attua la redistribuzione. Buona parte della spesa comunale ha finalità dichiaratamente sociali. Bisogna quindi considerare come i comuni utilizzano le risorse aggiuntive e le possibili alternative per reperirle.
La stella polare del “documento Rutelli” , dello scorso novembre, era costituita dall’ampliamento degli spazi di concorrenza nei servizi, nazionali e locali, e dalla riforma degli strumenti di regolazione, a cominciare dal potenziamento e dal riordino delle Autorità indipendenti. Dal vertice di Caserta ci si aspetta che il governo dica finalmente quante e quali di quelle proposte verranno trasformate in provvedimenti legislativi e in atti di indirizzo politico, indichi con chiarezza la “squadra” che dovrà lavorarci e gli incentivi che verranno messi in campo per favorire le liberalizzazioni.
La giunta lombarda ha avviato l’iter per l’ottenimento di maggiori competenze rispetto a quanto riconosciuto alle Regioni a statuto ordinario. Una possibilità prevista dall’articolo 116 della Costituzione. Che pone però molte questioni. Da quali motivazioni siano ammissibili per il riconoscimento del federalismo differenziato al suo finanziamento. Dalle modalità di monitoraggio dell’efficienza delle Regioni rafforzate nelle materie per cui sono fissati livelli essenziali al problema del debito pubblico e ai processi di decisione politica.
La Finanziaria chiede molto agli enti locali in termini di miglioramento dei saldi. Ma non è vero che le risorse addizionali offerte non sono sufficienti a garantire i servizi, almeno per laggregato. E vero però che per i comuni in disavanzo la correzione richiesta è robusta, superiore in media al doppio di quella complessiva per il settore pubblico. Questi problemi sono esacerbati dalla scelta della spesa corrente come criterio per la distribuzione dei sacrifici. E le sanzioni vanno modificate; così rischiano di essere controproducenti. In seconda pagina, una scheda di approfondimento.
Il contributo degli enti territoriali alla manovra finanziaria può realisticamente essere solo marginale, attorno ai 2-3 miliardi di euro al massimo. Anche se non necessariamente implica un risparmio per l’erario, è una buona idea sostituire i vari vincoli sulla spesa locale con uno sul saldo. Contemporaneamente, però, andrebbe rimosso il blocco sulle addizionali regionali e comunali. Restano da risolvere le questioni di quale saldo utilizzare e se inserirvi la spesa per investimenti. Tuttavia, per il futuro serve un sistema adeguato di sanzioni e incentivi.
L’esito del referendum di giugno, che ha bocciato la riforma del centro-destra, non esclude la possibilità di revisioni della Costituzione, purché ampiamente condivise e di portata limitata. Sarebbe necessario intervenire sulle regole istituzionali del federalismo fiscale, introdotte dalla riforma del Titolo V del 2001, la cui applicazione si è rivelata eccessivamente complessa. In questa direzione, una proposta che ripensa la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, le modalità di finanziamento dei governi locali, il ruolo delle Province e corregge il bicameralismo perfetto.