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LA VALUTAZIONE AL TEMPO DEL GOVERNO TECNICO

La nuova legge di contabilità prevede una delega al governo per diffondere pratiche di valutazione degli investimenti pubblici. L’obiettivo è dare maggiore efficacia alla spesa in conto capitale. Il governo Monti, però, non ha varato nei tempi prescritti i decreti attuativi che avrebbero consentito l’effettivo avvio di nuove procedure di valutazione e del processo di riqualificazione delle strutture dovrebbero svolgerle. Possibile che sia proprio un esecutivo tecnico a ritardare uno dei più significativi provvedimenti ad alto contenuto innovativo?

AL PAREGGIO DI BILANCIO DEI COMUNI SERVE IL MERCATO

Da qualche anno è possibile “territorializzare” il patto di stabilità interno: ai comuni è consentito sostenere spese in investimenti al di sopra del proprio saldo-obiettivo se altri comuni della stessa Regione sono disposti a cedere temporaneamente parte dei propri spazi finanziari. La sperimentazione non ha dato grandi risultati. Probabilmente perché i comuni che rinunciano ai loro diritti percepiscono il meccanismo come un prestito a costo zero. Potrebbe allora essere utile istituire un mercato dove vendere e acquistare il diritto a indebitarsi.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

La risposta ai commenti dei lettori mi permette di toccare argomenti che, per motivi di sintesi, non avevo potuto sviluppare nell’articolo.
In primo luogo l’indicatore di competitività considerato, il tasso di cambio effettivo reale aggiustato per il costo del lavoro per unità di prodotto, oltre a essere influenzato dalle diverse quote di mercato verso i paesi che non adottano l’euro e per cui una svalutazione/rivalutazione dei rapporti di cambio determina vantaggi/svantaggi competitivi, è condizionato da altri due fondamentali fattori:

  1. il costo del lavoro. Come sottolineato da alcuni commenti, l’aggiustamento della competitività tra paesi europei potrebbe passare attraverso una variazione del costo del lavoro. Evidentemente pesanti riduzioni dei salari nei paesi in difficoltà avrebbero effetti recessivi. Andrebbero quindi favoriti incrementi salariali nei paesi dell’Europa del Nord, come sottolineato anche dal commento del prof. Aquino,  nei quali la dinamica delle retribuzioni nell’ultimo decennio è stata particolarmente contenuta. Il vantaggio di tale soluzione sarebbe anche quello di aumentare i consumi e le importazioni nelle aree più ricche. In parte questo processo sta già avvenendo in Germania, dove i salari stanno progressivamente spostandosi su livelli più elevati. La velocità di aggiustamento, però, è troppo lenta – stante anche le rigidità salariali che i neokeynesiani tendono a sottolineare (si veda al riguardo il Grafico 1 presentato da Paul Krugman in cui si osserva come i salari nominali, in un paese caratterizzato da un alto dinamismo come gli Stati Uniti, varino con una bassa probabilità) – e non può verosimilmente garantire un riequilibrio competitivo tra i paesi europei;

     Grafico 1

Fonte: Paul Krugman su dati Current Population Survey

  1. la produttività. Un recupero di produttività nei paesi in ritardo di competitività avrebbe notevoli vantaggi. Produrre più beni e servizi, a parità di costi, aiuterebbe la crescita economica, soprattutto nel lungo termine. Il problema è che per raggiungere questo obiettivo vi è la necessità di effettuare notevoli investimenti, su un profilo temporale di diversi anni, sia materiali sia immateriali.
    a. Per quanto riguarda gli investimenti materiali, i paesi dell’Europa del Sud, tenuto conto della situazione dei rispettivi conti pubblici, non possono che fare affidamento sui paesi con la “salute migliore”. A mio avviso, però, l’obiettivo non dovrebbe essere semplicemente quello di inondare di soldi pubblici le economie in difficoltà, così come avvenuto in passato nel caso italiano con la Cassa del Mezzogiorno. Andrebbero, invece, individuati quei “colli di bottiglia” infrastrutturali che bloccano lo sviluppo (un esempio, per il caso italiano, potrebbe essere la Salerno-Reggio Calabria) e su quelli bisognerebbe agire, evitando di disperdere risorse che oggigiorno sono particolarmente scarse. Come ben sottolineato da Alesina e Giavazzi (1), ricoprire di asfalto e di rotaie i nostri territori non aiuterebbe di certo a sostenere la crescita nel lungo termine.
    Investimenti nella ricerca e nello sviluppo, e in particolare nella Green Economy, avrebbero invece maggiori effetti positivi. L’Unione Europea, infatti, dipende fortemente dagli approvvigionamenti energetici effettuati all’estero, quindi trovare fonti di energia alternative e migliorare l’efficienza dei consumi correnti dovrebbe essere un obiettivo che accomuni gran parte del continente europeo.
    b. Ancor più importanti sono gli investimenti immateriali. Migliorare il funzionamento delle macchine burocratiche, della giustizia, semplificare le norme e gli iter parlamentari attraverso cui queste vengono prodotte, sia a livello nazionale che europeo, produrrebbe dei benefici notevoli in termini di produttività. Si pensi solo al tempo che potrebbe risparmiare un imprenditore italiano in una controversia legale, che oggi necessita mediamente di ben 1.300 giorni per concludersi, se l’efficienza della giustizia civile nel nostro paese si adeguasse a quella delle migliori esperienze europee (in Lussemburgo, ad esempio, i tempi medi della giustizia sono poco superiori ai 300 giorni).

I singoli Stati europei attualmente in crisi, non sono però attrezzati, sia sul piano economico sia, soprattutto, politico, per ottenere risultati importanti e duraturi in termini di produttività. Solo un’Unione politica, in cui i paesi dell’Europa del Nord esportino, senza ostacoli legali a miopi nazionalismi, le loro capacità nel gestire e amministrare la cosa pubblica, potrebbe raggiungere nel medio-lungo termine questo obiettivo.  
Alcuni però potrebbero obiettare, usando le parole di Keynes, che nel lungo termine saremo tutti morti posto che la speculazione nel frattempo avrà spazzato via Stati europei, banche e l’euro stesso. In realtà se ci fosse la volontà politica di andare effettivamente verso l’Unione tra gli Stati europei la speculazione potrebbe essere facilmente sconfitta. Nel brevissimo termine, infatti, alla Bce potrebbe essere dato il mandato di salvare l’euro costi quel che costi, anche in termini di inflazione, acquistando sul mercato secondario, senza limiti di importo, i titoli di Stato di paesi aderenti all’Area euro oggetto della speculazione finanziaria. Già questo semplice mandato costituirebbe un fortissimo deterrente per gli speculatori che vedrebbero l’Area euro, nel suo complesso, come un pesce troppo grosso da poter essere mangiato.
Passata questa fase emergenziale l’emissione di Eurobond permetterebbe alla Bce di tornare a svolgere il suo ruolo di controllore attento dell’inflazione. La condivisione dei debiti pubblici tra tutti i paesi dell’Unione, così come avviene in ogni singola nazione tra aree avvantaggiate e quelle depresse, permetterebbe di rendere sostenibili i debiti pubblici accumulati in questi anni.
Per concludere con un’altra metafora marinaresca, allo stato attuale è come se stessimo facendo il viaggio di Cristoforo Colombo a ritroso: due delle caravelle sono pressoché affondate, ne rimane solo l’ultima e la speranza di poter finalmente vedere all’orizzonte gli Stati Uniti d’Europa.

(1) Alesina A. e F. Giavazzi, La direzione è sbagliata, Corriere della Sera del 6 giugno 2012

CHI APRE IL PORTAFOGLIO PER LA SPAGNA

E’ vero che l’Italia deve sborsare dei miliardi per il salvataggio della Spagna?

No, è il Fondo europeo di Stabilità a dare i soldi alla Spagna, attraverso titoli emessi dal fondo di stabilità stesso. L’Italia fornisce, come gli altri paesi, solo una garanzia e nell’immediato non avrà uscite di cassa. Sia che i fondi siano forniti dall’Efsf sia che l’operazione sia condotta dall’Esm, non è l’Italia a dover ricorrere ai mercati, ma il fondo stesso, che può indebitarsi a tassi nettamente più favorevoli di quelli attualmente pagati dal governo italiano, grazie alla garanzia  di tutti gli Stati partecipanti, compresi quelli con tripla A di rating (Germania in testa). Il solo esborso  da parte dell’Italia riguarderà il conferimento di capitale dell’ESM, che per quest’anno è previsto nella misura di 32 miliardi, di cui all’Italia spetta  una quota del 17,9 per cento: 5,7 miliardi. Di fatto è un meccanismo non lontano da quello previsto per gli Eurobond.

Il debito creato in questo modo entra nel debito pubblico ed è rilevante per il fiscal compact?

Dipende se l’operazione sarà condotta dal fondo attualmente operativo (Efsf) o dal suo successore (Esm). Questo perché Eurostat non ha riconosciuto all’Efsf un’esistenza autonoma rispetto agli Stati che ne fanno parte. Nel caso dell’Efsf, il debito che questo contrae sui mercati per intervenire a favore degli Stati che richiedono assistenza è classificato dalle autorità statistiche come debito pubblico nazionale degli Stati che partecipano al fondo. Diverso è il caso dell’Esm, che sarà operativo dal 1 luglio ed è riconosciuto da Eurostat come un’istituzione internazionale, alla stregua della Comunità europea, e il cui debito sarà conseguentemente distinto da quello degli Stati . C’è dunque una differenza dal punto di vista dell’impatto sul debito rilevante per i parametri di Maastricht. Tuttavia, per il Patto di stabilità la distinzione è poco rilevante, poiché lo stesso patto prevede che l’impatto di queste operazioni debba essere considerato a parte dalla Commissione, quando questa sia chiamata ad applicare la procedura per disavanzo eccessivo.

IL FEDERALISMO NELLA SPENDING REVIEW

Attraverso la spending review il governo cerca gli oltre 4 miliardi di risparmi promessi entro il secondo semestre 2012. Ma il federalismo fiscale può abortire di fronte a una revisione della spesa attuata d’imperio dal governo centrale e diretta non solo a estendere la regola dei prezzi Consip, ma anche a individuare i consumi unitari ottimali. Più probabile comunque che il processo si arresti sotto un’ondata di ricorsi. Non ci sono alternative alla concertazione con i governi locali.

PER FAVORE NON FERMATEVI

Il Governo ha solo otto mesi di tempo per attuare riforme vitali per il destino del paese. Ma al momento l’esecutivo sembra paralizzato dai dissidi nella sua maggioranza. Le principali priorità devono essere la riforma della macchina dello stato e dello spoils system e la creazione di una constituency a favore dei tagli alla spesa, primo passo per riddurre una pressione fiscale insostenibile. Qualunque mezzo per aggirare questo immobilismo è buono, compreso agire per decreto anziché con disegni legge.

QUANDO L’IMMIGRATO È UNA SUPERSTAR

I lavoratori immigrati sono pagati di più o di meno degli autoctoni che svolgono lo stesso lavoro o uno simile? Non è facile rispondere a questa domanda perché mancano dati specifici, che diano conto, per esempio, della produttività individuale. Un problema risolto in una recente ricerca con l’analisi della situazione dei calciatori stranieri presenti nelle squadre italiane nel periodo 2000-2008. Sono pagati decisamente meglio dei loro colleghi italiani. Ma sono comunque un buon affare per le società, in termini di tifosi allo stadio e di punti guadagnati.

FOTOVOLTAICO: FINITA LA FESTA RIMANE IL CONTO DA PAGARE

Nonostante la recessione, un settore industriale ha continuato a crescere in Italia: il fotovoltaico. Grazie agli incentivi, pagati dagli italiani con aumenti delle bollette elettriche. Tra l’altro, la crescita della produzione da fonti rinnovabili avviene mentre scende la domanda complessiva di energia elettrica. Senza contare lo sbilanciamento della rete dovuto alla forte variabilità della produzione fotovoltaica ed eolica, che finirà per aumentare il costo richiesto dai gestori di centrali termoelettriche per tenere a disposizione un’alta capacità di riserva.

ENERGIA RINNOVABILE: OLTRE IL COSTO DEGLI INCENTIVI

I due decreti che ridefiniscono il sistema degli incentivi alle rinnovabili elettriche sono nati sotto una cattiva stella: bocciati dalla Commissione europea, poi approvati con modifiche dalla Conferenza Stato-Regioni. Vedremo ora cosa succederà in Parlamento. Ma parlare ancora dell’eccessivo costo degli incentivi e dell’onere per le bollette degli italiani significa mettersi in un’ottica molto ristretta. Mentre dovrebbe essere ferma la volontà di rendere il sistema progressivamente meno dipendente dalle fonti fossili e dagli approvvigionamenti dall’estero.

PER UN “FREEDOM OF INFORMATION ACT” ITALIANO

Parte in questi giorni una campagna per l’introduzione anche in Italia del “Freedom of Information Act”. Si tratta di una legge che garantisce a tutti i cittadini l’accesso agli atti e ai documenti prodotti dalla pubblica amministrazione. La sua approvazione segnerebbe una svolta fondamentale in un paese come il nostro, che soffre di una acuta mancanza di trasparenza. Certo, il solo varo della norma non  cambierebbe magicamente la pubblica amministrazione e dovremmo  aspettarci resistenze di tutti i tipi.

UN CAMBIAMENTO DI PROSPETTIVA

Oggi in Italia un comune cittadino può richiedere alla pubblica amministrazione solo informazioni che lo riguardano personalmente; al contrario, con il Foia lo stesso cittadino potrebbe richiedere qualsiasi informazione che non sia esplicitamente esclusa dalla legislazione, senza dover fornire giustificazioni sulla richiesta. In sostanza, passerebbe il principio che le informazioni detenute dalla pubblica amministrazione appartengono ai cittadini: dunque, come se si invertisse l’onere della prova, non sarebbe più il cittadino a dover giustificare la richiesta di informazioni, quanto piuttosto la pubblica amministrazione a dover giustificare la segretezza, ed elencare in quali casi specifici i documenti non sono pubblici.
Da questo cambio di prospettiva e da una pubblica amministrazione più trasparente possono derivare numerosi benefici: (1) i cittadini sono più informati sull’operato dei loro rappresentanti e quindi probabilmente capaci di sceglierli in maniera più oculata; (2) si instaura un rapporto di maggiore fiducia fra cittadini e pubblica amministrazione; (3) si creano buoni incentivi per chi gestisce la cosa pubblica, affinché operi nell’interesse collettivo, aumentando dunque l’efficienza del sistema e riducendo il grado di corruzione.

GRAN BRETAGNA MA NON SOLO

Leggi sulla trasparenza della pubblica amministrazione sono state adottate da circa 80 paesi. Il caso più famoso è il “Freedom of Information Act”americano del 1966 (cui i promotori del Foia si ispirano anche nel titolo), ma la prima norma di questo tipo fu introdotta più di duecento anni fa in Svezia. Un esempio emblematico della sua efficacia è la Gran Bretagna, dove il Foia è stato adottato nel 2000. C’è poco da dire: lo scandalo sui rimborsi spese dei parlamentari del 2009 è una conseguenza diretta di quella legge. I cittadini vennero a conoscenza di vari trucchetti usati per gonfiare le spese, alcuni giudicati di gravità tale da spedire i loro autori (sei parlamentari) in prigione. I cittadini ebbero anche modo di riflettere sull’abisso economico e sociale che li separava da alcuni di questi parlamentari, come l’onorevole Douglas Hogg, che si faceva rimborsare a spese del contribuente la pulizia del fossato del suo castelletto (mansion).

TORNANDO ALLE COSE ITALIANE

Pochi paesi fra quelli democratici soffrono l’assenza di trasparenza quanto il nostro, dove gli accordi politici e gli affari avvengono troppo spesso nel chiuso dei palazzi anziché alla luce del sole. Solo pochi giorni fa, Stefano Rodotà denunciava su La Repubblica come una fase di fatto costituente come quella attuale si svolga ancora una volta senza una piena partecipazione dei cittadini e addirittura senza che vi sia consapevolezza diffusa della sua importanza: le proposte di riforma costituzionale sono spesso solo segnali di fumo e merce di scambio fra addetti ai lavori, da parte peraltro di un parlamento che non gode della rappresentatività necessaria per mettere mano al lavoro dei padri fondatori della Repubblica.
Un esempio lampante dei mali della scarsa trasparenza sono le recentissime nomine all’ Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) e all’Autorità garante per la privacy, le quali nonostante l’appello pubblico ad inviare curricula- sono ancora una volta il frutto evidente di un cencelliano accordo preso dai partiti politici fuori dal parlamento.
Esistono comunque controindicazioni alla trasparenza, che vale la pena ricordare. Sicuramente non tutti gli atti della pubblica amministrazione possono essere resi pubblici. Ci sono ragioni di sicurezza nazionale, ad esempio, per le quali è nell’interesse stesso dei cittadini che alcune informazioni non vengano rese pubbliche. È una controindicazione ovvia e difatti tutti i paesi che hanno adottato il Foia hanno incluso la sicurezza nazionale tra i motivi per negare l’accesso a documenti.
Dal punto di vista dell’architettura complessiva dei diritti, naturalmente non ci sfugge il contrasto tra la vigente (e stringente) normativa sulla privacy e il principio di trasparenza e informazione che è implicito nel Foia. È pur vero che ogni norma deve mediare tra diritti e interessi in conflitto: pur non essendo giuristi, ci azzardiamo dunque a suggerire che nel caso dei rapporti tra cittadini e Stato prevalga la trasparenza del Foia, mentre nei rapporti orizzontali tra cittadini dovrebbe prevalere il principio della privacy.
Sarebbe utile peraltro se il Foia trovasse applicazione anche presso enti e associazioni senza fini di lucro, come i partiti politici, i sindacati e le chiese. Applicando un (notevole) sforzo di fantasia, la domanda che sorge spontanea è questa: in presenza di un diritto generale alle informazioni come quello implicito nel Foia, sarebbero mai potuti accadere scandali gravi come quello della gestione “impropria” dei finanziamenti pubblici da parte dei tesorieri Luigi Lusi e Francesco Belsito? E che dire della campagna di diffamazione contro l’ex direttore de L’Avvenire Dino Boffo, che – secondo il libro “Sua Santità” di Gianluigi Nuzzi – sarebbe stata avallata dal direttore dell’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian? Se un cittadino ha un diritto generale alle informazioni, perché non anche un fedele?

UN PASSO NELLA DIREZIONE GIUSTA

Un’ultima considerazione riguarda l’attuazione del Foia. Occorre stabilire meccanismi precisi di responsabilità in caso di mancato adempimento. Una richiesta di informazioni in qualsiasi formato, compresa una semplice e-mail, deve essere evasa entro un termine dato (diciamo un massimo di venti-trenta giorni); inoltre occorre stabilire precise responsabilità e sanzioni in caso di ritardi, incompletezze, omissioni, eccetera.
Inutile farsi illusioni: il Foia non cambierà magicamente la pubblica amministrazione, mentre dovremo comunque aspettarci resistenze di tutti i tipi, oltretutto favorite dalla lentezza della macchina giudiziaria. Si tratta però di un passo nella giusta direzione che speriamo possa nel medio-lungo termine restringere gli spazi di quella cultura della segretezza che ancora prevale nella nostra società.

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