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Una rosa piena di spine

Sette proposte di legge per introdurre anche in Italia la class action. Che però non sembra essere lo strumento giusto per il diritto antitust. Appare eccessiva se l’obiettivo è accrescere la funzione deterrente delle sanzioni dell’Agcm. Se invece si vogliono dare ai privati gli incentivi e gli strumenti concreti per contrastare comportamenti anticoncorrenziali attraverso la giustizia civile, andrebbero affrontati i nodi del costo dell’indagine e della raccolta di prove. Mentre ai giudici spetterebbe il non molto congeniale ruolo di registi delle cause.

Così l’efficienza entra in tribunale

Adottando un semplice decalogo, il tribunale di Torino ha aumentato in modo notevole la produttività. A parità di risorse e organico. Se tutti i tribunali italiani avessero fatto altrettanto, il numero di giorni medio per un giudizio di primo grado nelle cause di contenzioso civile sarebbe sceso da 1007 giorni nel 2001 a 769 giorni nel 2005. La situazione della nostra giustizia può dunque migliorare decisamente se funzionari di vertice motivati esercitano effettivamente i loro poteri direttivi. E se la cooperazione di tutto lo staff è stimolata da adeguati incentivi.

Quelle tasse occulte che favoriscono l’evasione

L’evasione fiscale è legata più alle imposte “tradizionali” o a quelle occulte, cioè alla congerie di regole inutili che gravano sul libero svolgimento dell’azione economica dei privati? Se si guardano gli indicatori internazionali se ne deduce che almeno nel medio-lungo periodo, un euro investito per migliorare il sistema paese potrebbe ridurre il fenomeno più di quanto possa fare un euro in meno chiesto ai contribuenti. Inoltre, istituzioni pubbliche economiche più efficienti potrebbero attrarre capitali esteri e disincentivare la delocalizzazione.

Più chiarezza sui nuclei di valutazione

Nel 1992, di fronte alle degenerazioni di Tangentopoli e per evitare la catastrofe economica di un ingente disavanzo pubblico, il governo Amato ha ottenuto dal Parlamento la delega per realizzare quattro riforme, nei settori ritenuti (allora come oggi) causa del disavanzo: previdenza, sanità, finanza locale, pubblica amministrazione.

Il ruolo dei nuclei di valutazione

La riforma della Pa è stata fondata su un principio forte: riservare agli organi politici le funzioni di indirizzo e di controllo e affidare alle strutture operative la gestione delle risorse, l’organizzazione delle attività e la responsabilità dei risultati.
Sono state introdotte, per il personale, consistenti incentivazioni economiche, ancorate, però, a metodiche di garanzia, ricomprese nel sistema dei controlli. La distribuzione degli incentivi è stata correlata a specifici sistemi di valutazione da negoziare con le organizzazioni sindacali. Per elaborare i criteri e applicarli al personale dipendente, il decreto legislativo 286/99 ha previsto la costituzione di appositi nuclei di valutazione.
L’esperienza maturata consente di affermare che i nuclei di valutazione possono svolgere questo ruolo in maniera coerente con gli scopi della riforma solo se hanno libertà di operare in maniera indipendente, come soggetti terzi tra gli organi politici e le strutture operative; non subiscono interferenze o condizionamenti da parte degli organi politici e, quindi, se vengono nominati con procedure pubbliche trasparenti; e se di essi non fanno parte dipendenti dell’ente pubblico, per evitare l’anomalia del valutato-valutatore.
Nella pratica avviene che le nomine siano spesso di tipo discrezionale, nello spirito dello spoils system; che il direttore generale o dirigenti dell’ente locale vengano cooptati nel nucleo; che gli organi politici esorbitino dalle funzioni di indirizzo per condizionare aspetti gestionali di competenza della dirigenza tecnica e che le disfunzioni dei servizi operativi dipendano spesso da criticità di sistema, non adeguatamente risolte a monte dagli organi politici.
Non sarà male, allora, riflettere che la produttività da misurare non è solo quella del pubblico impiego, ma quella complessiva dell’ente pubblico e che, quando si parla di pubblica amministrazione bisogna riferirsi all’insieme strutturale “organi politici + strutture operative”.
Il progetto di legge per la costituzione dell’Autorità sul pubblico impiego dovrebbe garantire perciò che i nuclei di valutazione, nel valutare il rendimento dei dipendenti, siano tenuti anche a indicare le disfunzioni di sistema attribuibili a monte agli organi politici, e che tali segnalazioni vengano doverosamente rivolte ai soggetti politici, perché provvedano a mettervi rimedio, ma raggiungano anche l’Autorità, la pubblica opinione locale e quanti sulla Pa studiano e ricercano.

I rapporti con gli enti locali

Un secondo punto su cui riflettere è come riuscire a trasferire a livello degli enti pubblici territoriali i principi del progetto di legge, senza suscitare reazioni. Pur essendo semanticamente corretto scrivere che gli enti locali sono tenuti ad adeguare i propri ordinamenti alle disposizioni della legge delega e dei decreti legislativi, il termine “disposizioni” suscita il sospetto di dover riproporre modalità operative decise centralmente. Forse sarebbe meglio dire che essi debbono adeguare i propri ordinamenti “ai principi e alle finalità” della legge delega. La verifica di attuazione va condotta sull’elemento sostanziale del conseguimento dello scopo voluto dalla legge, più che sui modi di come farlo.
Le indicazioni di principio del Dlgs 286/99 non hanno prodotto risultati sempre in linea con le finalità che si vogliono perseguire. Ecco allora la necessità di far assurgere a principio della legge delega l’affermazione che per assicurare la terzietà e l’autonomia dei nuclei di valutazione, la loro costituzione va garantita con procedure pubbliche trasparenti e la loro composizione non può prevedere la presenza di soggetti politici o di personale dell’ente locale in cui il nucleo deve operare. Si tratta di due condizioni oggettive che è possibile verificare in concreto.
Quanto alle attività d’iniziativa dell’Autorità, di cui alle lettere f) e seguenti dell’articolo 2, si ha motivo di ritenere che la sola struttura centrale possa essere insufficiente per una mole così ampia di compiti. Per questo va valutata la possibilità di porre a supporto dell’Autorità, presso le prefetture, una rete di piccoli comitati di esperti locali che mantengano, nell’ambito provinciale, rapporti di collaborazione con i nuclei già costituiti; che svolgano funzioni di promozione e di supporto agli enti pubblici che ne sono sprovvisti e che operino da collettori delle informazioni necessarie all’Autorità centrale.

Il caso delle Asl

Il terzo punto di riflessione riguarda la particolare situazione delle aziende sanitarie locali. In quanto strutture aziendali sanitarie esse debbono applicare la riforma sanitaria del 1992 (decreto legislativo 502/92) e successivi aggiornamenti. In quanto strutture pubbliche esse sono tenute ad applicare la riforma della Pa del 1993 (Dlgs 29/93) e successivi aggiornamenti.
In base alla riforma sanitaria, le Asl ricevono gli indirizzi da un organo politico locale costituito dalla “Conferenza dei sindaci” (quando la Asl è sovracomunale), dal sindaco o dall’organo circoscrizionale (quando l’Asl è comunale o intracomunale). Infatti, sono questi organi politici che, in forza della legittimazione elettorale, hanno titolarità per esprimere i bisogni delle popolazioni amministrate. Ed è a essi che le Asl sono tenute annualmente a riferire, in pubbliche conferenze di servizio, sulle attività svolte e sui risultati conseguiti (articolo 14 Dlgs 502/92).
In quanto enti pubblici, le Asl debbono, però, conformarsi anche al sistema dei controlli di cui al Dlgs 286/99, comprensivo della attivazione di specifici nuclei di valutazione.
anomalia è che nella pratica i nuclei di valutazione delle Asl rispondono al direttore generale o riferiscono direttamente alla Regione. Nel primo caso si vulnera il principio che il direttore generale, essendo esso stesso soggetto di valutazione, non può rivestire contemporaneamente il ruolo di valutatore finale. Nel secondo caso, oltre a potenziarsi il neocentralismo regionale, si verifica l’anomalia che un soggetto di programmazione, quale è la Regione, svolge in concreto funzioni di gestione, esautorando i legittimi organi politici locali.
Occorre fare esplicita menzione nella legge delega di questa peculiarità delle Asl, per poter correggere le anomalie che ne derivano nei decreti legislativi di attuazione.

Ma l’Authority non serve

La proposta di istituire una Authority sul pubblico impiego, avanzata da Pietro Ichino, ha sollevato un importante dibattito, sia in sede scientifica, sia in sede politica. Compito di queste brevi note è di proporre ulteriori elementi di discussione su alcuni aspetti tecnici.

Affermazioni di buon senso ed evidenza empirica

Che nella Pa italiana vi siano diffusi problemi di inefficienza è opinione comune ed esperienza diffusa: tutti, in qualche modo, siamo cittadini utenti di pubblici servizi. Questa sensazione condivisa di cattivo funzionamento diventa stridente, poi, ogniqualvolta ci si trovi a confrontare la nostra situazione con i migliori esempi europei, dal “mito” della burocrazia francese, ai servizi infrastrutturali tedeschi, al welfare nord-europeo, e così via.
Non si vuole mettere in discussione la validità di affermazioni di buon senso, le quali possono essere spiegate, peraltro, alla luce della teoria economica della burocrazia, basate sul paradigma individualista. Il punto è che per fare un discorso scientifico descrittivo e prescrittivo su questi problemi l’aneddotica non basta. (1)
Le premesse generali di Ichino sono due: la prima è che la Pa italiana sia inefficiente, la seconda è che una causa primaria di tale inefficienza sia la scarsa produttività dei dipendenti pubblici. Quindi, occorre trovare adeguate evidenze empiriche, misurate secondo metodi robusti, dei seguenti fenomeni:

· l’inefficienza della Pa italiana: quanta ce n’è e in rapporto a quale benchmark, come si manifesta, dove si annida in particolare, quando si verifica;
· la “nullafacenza” dei dipendenti pubblici, anche qui con la necessità di stabilire le medesime coordinate di quanto, come, dove e quando;
· il nesso causale che regredisce dalla seconda alla prima: consistenza e forza di tale nesso, esclusione di relazioni spurie, eccetera.

Nel dibattito su lavoce.info l’esistenza di problemi di misurazione dell’efficienza dei pubblici servizi è già stata sollevata, ma la questione va approfondita ulteriormente.

Problemi di misurazione

La misurazione dell’efficienza nel caso della produzione di attività burocratico-amministrative e di beni e servizi pubblici non è resa difficoltosa solo dall’assenza di prezzi di mercato che consentano di valutare il valore effettivo della produzione. Anzi, allo stato attuale delle tecniche, questo è probabilmente un aspetto in parte superato. Sono ormai ampiamente sperimentati in letteratura metodi di misurazione dell’efficienza relativa che considerano l’output in termini fisici, come la Data Envelopment Analysis o il metodo delle frontiere stocastiche. Per le attività prettamente amministrative, in verità, rimangono specifiche difficoltà di definizione e misurazione dell’output, anche in termini fisici e un tentativo di risolvere tale questione è stato quello, applicato in passato nella Pa italiana, basato sui carichi di lavoro.
Il problema fondamentale, però, resta quello di non conoscere a priori la funzione di produzione dei vari servizi pubblici considerati, per cui non si è in grado di individuare e misurare i casi di inefficienza produttiva (tecnica) in senso assoluto. I metodi citati, infatti, consentono di stimare una “frontiera” delle possibilità produttive, ma solo in termini relativi. Permettono di individuare un benchmark costruito in base alle prestazioni migliori tra i casi considerati. In sintesi, dato un determinato settore della Pa, si può stimare quali amministrazioni siano inefficienti (e quanto) rispetto alla performance degli uffici più produttivi. Per fare un esempio di attualità, è possibile stabilire quali ospedali pubblici siano meno produttivi rispetto ai migliori ospedali italiani. In linea teorica si potrebbe farlo anche con le prefetture, o con gli uffici del catasto, e così via.
L’applicabilità di tali tecniche, peraltro, si scontra con altri, non facili problemi. Primario è quello dell’omogeneità dell’output: le analisi di efficienza relativa, per essere attendibili, presuppongono che le unità produttive messe a confronto producano esattamente lo stesso tipo di output. Non basta che si tratti di ospedali, ma occorre che siano ospedali che offrono lo stesso tipo di prestazioni, le quali, inoltre, vanno “pesate” adeguatamente.
È ovvio che queste possibilità di misurazione non possono offrire evidenze empiriche, se non in maniera molto parziale, alle premesse generali del ragionamento. Una volta sancito che un tale ufficio è meno efficiente rispetto all’ufficio più produttivo, infatti, restano da stabilire almeno due cose: in primo luogo, occorre verificare se la migliore prestazione rilevata (il benchmark relativo) sia effettivamente la migliore possibile (anche il più produttivo tra gli uffici considerati potrebbe essere, in realtà, inefficiente). In secondo luogo, la constatazione di inefficienza tecnica relativa a carico di un ufficio o di un’azienda pubblica, a rigore, non ci dice nulla riguardo alle cause.
Per il primo punto continua a rilevare la questione della non conoscenza a priori della funzione di produzione. Del resto, secondo una vecchia battuta che circola tra gli economisti, la funzione di produzione la conoscono solo Dio e gli ingegneri.
Per quanto riguarda il secondo punto, invece, si ritorna alla questione del nesso causale sottostante al ragionamento di Ichino. L’inefficienza (relativa) di una qualsiasi unità organizzativa della Pa può dipendere da molteplici fattori: cattiva organizzazione, carenze di direzione e coordinamento, una inefficiente combinazione degli input, la scarsa produttività unitaria degli input. Solo questi ultimi due fattori hanno a che fare con le questioni sollevate da Ichino: ci può essere una pletora di lavoro pubblico, eventualmente sostituibile con risorse capitali, oppure un problema di scarsa (o addirittura negativa) produttività dei singoli, da licenziare e, nei casi di produttività bassa ma non negativa, da sostituire con elementi maggiormente produttivi. Anche nel caso di un’osservata scarsa produttività unitaria del lavoro, poi, occorre verificare quali ne possono essere le cause, alcune non dipendenti dall’impegno del lavoratore: la carenza di formazione, a esempio, o di motivazione, dovuta a difetti di direzione o a fenomeni di sottoutilizzazione, e così via.

Solo casi eclatanti?

Ma è proprio questo il problema di misurazione più arduo da risolvere. Non solo mancano tecniche sperimentate, ma diventa soprattutto difficile avere una base di dati attendibile sulla produttività del singolo lavoratore pubblico perché intervengono i noti problemi di asimmetria informativa e altre questioni, già toccate dall’intervento di Daveri.
La questione è già stata sollevata e Ichino ha risposto che «Qui parliamo di “valutazione”, nel senso che la parola assume sul piano giuridico: niente a che vedere con la misurazione. Per qualsiasi lavoro si può esprimere una valutazione circa la sua utilità rispetto agli scopi dell’istituzione o rispetto a un’attività aziendale. […] D’altra parte, qualsiasi lavoratore, anche l’ultimo degli uscieri, può esprimere una produttività negativa, per esempio rubando, o molestando le colleghe, o tenendo altre attività illecite nel luogo di lavoro».
Se sono questi i casi a cui si punta, però, ci sfugge la portata stessa della proposta: si tratta, cioè, di casi eclatanti di malversazione e frode nei confronti dell’erario, a volte addirittura con risvolti penali rispetto a terzi. C’è bisogno di una Authority nazionale per “valutarli” e quindi sanzionarli? E, per quanto possano verificarsi fenomeni di questo tipo, siamo sicuri che il generale e sentito problema dell’inefficienza della Pa italiana sia risolvibile, o anche solo significativamente attenuabile, grazie all’eliminazione dei casi estremi?
Questi comportamenti vanno comunque sanzionati per il danno, non solo pecuniario, che generano all’erario e nei confronti di terzi privati, e non perché siano causa di inefficienza dell’azione pubblica. E per individuarli l’aneddotica è sufficiente. Ma non è necessaria l’Authority: bastano le altre interessanti e sensate proposte di riforma che il disegno di legge presentato da Ichino contiene, come la limitazione della responsabilità civile dei dirigenti amministrativi e la costruzione di un sistema di incentivi e disincentivi più efficace.
Per quanto riguarda la parte di misurazione e valutazione dei fenomeni di inefficienza e delle loro cause, invece, senza fare ricorso a strutture straordinarie costruite ad hoc, basterebbe cominciare con un serio lavoro di indagine conoscitiva sulla Pa, che consideri la varietà di strutture organizzative e la consistenza degli organici, le tipologie contrattuali, le competenze professionali presenti, i metodi di programmazione del fabbisogno, le attività di formazione e l’uso delle procedure di mobilità. Il tutto con riferimento all’attuale quadro istituzionale in continua transizione verso il regionalismo. Da un’analisi di questo tipo potrebbero scaturire risultati (apparentemente) sorprendenti, come il fatto che, a esempio, gli organici non sono necessariamente e ovunque sovradimensionati, soprattutto negli enti locali, dopo anni di applicazione del blocco del turn-over e del Patto di stabilità interna.

* Queste note sono state predisposte da ricercatori attualmente impegnati nel progetto di ricerca Sisper (http://sisper.istat.it), finanziato dal Dipartimento della Funzione pubblica e in corso di svolgimento presso l’Istat. Le opinioni sono espresse a titolo puramente personale e non impegnano in alcun modo gli enti citati.

(1) Probabilmente lo pensa anche Pietro Ichino, visto che nel suo progetto assegna alla Authority precisi compiti di valutazione.

Più pubblica o più privata?

Di pubblica amministrazione si è tornati a parlare. E questo è un bene, dal momento che gli ultimi cinque anni hanno visto un po’ l’eclissi del tema (ai Giannini, Cassese e Bassanini sono succeduti i Mazzella e i Baccini che certo non hanno lasciato tracce significative nell’opinione pubblica).
E tuttavia i modi in cui se ne è tornati a parlare sono deludenti, non solo per il merito delle proposte avanzate, quanto soprattutto per il fatto che sembrano ignorare, forse volutamente, il dibattito scientifico sviluppato a livello internazionale e tutto sommato anche l’esperienza italiana. Si può pensare tutto il male possibile del New Public Management e del dibattito sulla governance, per non parlare delle iniziative dell’Oecd. Ma, almeno, bisognerebbe tenere conto della direzione in cui sta andando la riflessione.

L’inefficienza non è generalizzata

Un primo esempio, ampliando le riflessioni già avanzate dal gruppo di lavoro Sisper, riguarda la questione dell’efficienza della Pa. Siamo sicuri che essa sia così bassa in modo generalizzato? Molti dati sembrano suggerire il contrario. L’esempio dell’indagine Pisa è da questo punto di vista eclatante: i livelli di apprendimento degli studenti italiani sono sì bassi, ma sono soprattutto estremamente differenziati tra un Centro e un Nord nei quali appaiono assolutamente in linea con le medie europee, e un Sud in cui sono molto al di sotto. Poiché il rapporto di lavoro degli insegnanti, il loro sistema di incentivi, le garanzie di cui godono, sono uniformi a livello nazionale sorge il sospetto che le strategie di riforma proposte da Pietro Ichino , e forse anche da Tito Boeri e Giuseppe Pisauro (ma qui il discorso sarebbe più lungo) siano inadeguate, proprio perché non tengono conto dei fattori che quei dislivelli generano. E lo stesso vale per l’università (si vedano i dati sulla valutazione studentesca o la analisi dell’employability fatta da Alma Laurea), per la sanità (dove la valutazione è sistematicamente più alta tra gli utenti che nella cittadinanza), per moltissimi servizi locali. E si potrebbe continuare con molti altri esempi.
Ciò non significa che non siano possibili recuperi di produttività, sarebbe demenziale affermarlo. E nemmeno che essi non potrebbero avere benefici effetti sulla spesa pubblica, ma le soluzioni proposte non sembrano in grado nemmeno di scalfire il problema.

La domanda da porsi

In realtà, la domanda che bisognerebbe porsi è la seguente: le pubbliche amministrazioni “non funzionano” perché a esse si applicano regole diverse da quelle con cui operano le organizzazioni private, oppure perché la sostanziale differenza delle missioni e dei contesti richiederebbe regole ancora più differenti? Come tutte le buone domande, non ha una risposta né semplice né ovvia, tanto è vero che grandissimi studiosi – per tutti: Sabino Cassese – hanno anche recentemente sostenuto che l’applicazione dei principi di totale flessibilità al rapporto di lavoro dei manager pubblici configge con l’imparzialità e il buon andamento previsti dalla Costituzione.
E tuttavia la strada seguita negli anni “di Bassanini” in Italia, e in buona parte dei paesi occidentali almeno a partire dal 1980, è andata nella direzione opposta, nel tentativo di uniformare le regole tra settore pubblico e settore privato, per quanto attiene al rapporto di lavoro e al funzionamento dell’organizzazione. Così ad esempio la non indipendenza degli organi di controllo interno, lamentata da Ichino e Paderni, non è una mancata attuazione del decreto 286/1999, ma costituisce un obiettivo esplicitamente perseguito, proprio per riportare l’attività di analisi della performance, il controllo di gestione e la valutazione dei dirigenti, al loro significato “normale” in tutte le organizzazioni “normali”: quello di essere strumenti nelle mani dei dirigenti per lo svolgimento delle loro normali attività. Il tutto basato sull’osservazione, abbastanza naturale dopo Tangentopoli, che più di cento anni di controlli esterni indipendenti non sembravano essere stati particolarmente efficaci né nell’impedire fenomeni degenerativi, né nell’assicurare un’efficienza media accettabile. E che, se il settore privato è più efficiente di quello pubblico, forse ciò avviene anche perché le regole sulla base delle quali esso funziona sono più adeguate.

Condizioni necessarie

Ovviamente questa scuola di pensiero, dominante in tutti i paesi sviluppati, ritiene che la rimozione dei vincoli (la contrattualizzazione dei dipendenti, l’omogeneizzazione dell’orario di lavoro, l’abolizione dei controlli esterni, l’uso generalizzato degli strumenti del diritto privato, la separazione organizzativa tra attività di indirizzo e attività di gestione, la piena assimilazione delle modalità di nomina dei vertici amministrativi a quelle dei top manager privati, eccetera) non è condizione sufficiente per il miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia. Se politici, funzionari e clienti sono d’accordo nel non spingere in questa direzione, c’è ben poco che si possa fare per legge. Tuttavia, chi scrive riteneva allora e continua a ritenere, con il conforto di qualche osservazione empirica, che era ed è l’impostazione corretta, e che abbia consentito, nei molti luoghi delle pubbliche amministrazioni italiane dove c’erano la volontà e le risorse per farlo, di migliorare significativamente efficienza ed efficacia dei servizi, soprattutto attraverso la migliore trasparenza delle responsabilità per successi e fallimenti. In altre parole, si trattava di condizioni necessarie per consentire il dispiegamento delle potenzialità presenti nei sistemi.
Altro discorso ovviamente è se questo disegno sia stato perseguito con la necessaria coerenza, se siano state messe in campo le azioni necessarie per intervenire nei punti di crisi, se le persone preposte a tutti i livelli siano state all’altezza delle nuove responsabilità attribuite, eccetera.
Però in quegli anni abbiamo imparato due cose: che non esiste “la pubblica amministrazione”, ma tanti diversi servizi pubblici con diverse esigenze e condizioni di contesto, e che i principi prevalenti a livello internazionale sono applicabili anche in Italia. Dispiace un po’ che tali fondamentali insegnamenti corrano il rischio di andare perduti.

Metti una farmacia tra Antitrust e Corte Costituzionale

Nonostante le novità del decreto Bersani 1, la distribuzione al dettaglio dei farmaci continua a essere caratterizzata da un assetto anticoncorrenziale. Ora una segnalazione dell’Antitrust invita le Regioni a rimuovere tutti i vincoli su orari e giorni di apertura. In contrasto con una sentenza della Corte Costituzionale. Non è la prima volta che accade, anche perché la Corte adotta un punto di vista giuridico, l’Agcm economico. Per il futuro, l’auspicio è di una convergenza e di un raccordo tra le due istituzioni.

Quanto è necessario il secondo pilastro?

L’avvento della formula contributiva, necessaria per garantire stabilmente la sostenibilità del sistema, implicherà coperture pensionistiche in progressiva diminuzione. Non potrà essere impedita, e neppure significativamente frenata, dall’aggiunta della pensione complementare generata dalla devoluzione del Tfr. Piuttosto, occorrerà un percorso di continui aumenti dell’età al pensionamento. Il modello contributivo ha gli strumenti per promuoverlo: basta “lasciarlo lavorare” non impedendo le revisioni dei coefficienti di conversione.

Non è ancora l’ora di brindare

Le stime sulla crescita del Pil nel quarto trimestre sono molto buone. E con l’economia italiana nel suo complesso è tornata ad andare bene anche l’industria. Ma non è il momento di accontentarsi dei risultati ottenuti. Altrimenti, se si esaurisse la congiuntura positiva in Germania, tra qualche mese potremmo trovarci con l’amara sorpresa di non avere fatto “i compiti a casa”. In fatto di trasporti ed energia, per esempio. E di disincentivi all’accumulazione derivanti dall’attuale struttura della tassazione del risparmio e del reddito d’impresa.

A Sud niente di nuovo

Nelle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno anche questo governo cade nell’equivoco. E scambia la difficoltà di utilizzare le risorse con una loro presunta scarsità. Invece di preoccuparsi della capacità di spesa, meglio farebbe a controllarne la qualità. La programmazione unica per Fas e fondi strutturali rende ancora più probabile rispetto al passato l’osmosi tra vari tipi di finanziamento. Sarebbe stato molto più utile “specializzare” i singoli fondi, finalizzandoli a determinati progetti. Si sarebbero evitate pericolose sovrapposizioni.

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