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Che fondi per il fondo

Finora il Fondo monetario internazionale ha finanziato la sua attività di sorveglianza e assistenza tecnica con gli interessi sui prestiti ai paesi in difficoltà economica. Ovvero grazie alle crisi che per altro verso cerca di prevenire. E’ uno schema strutturalmente sbagliato e occorre trovarne uno nuovo che garantisca entrate stabili. Al di là delle diverse possibili soluzioni, il problema è politico: la comunità internazionale crede davvero nel bene pubblico della sorveglianza di un’istituzione multilaterale, e quanto è disposta a pagare per averla?

Perché l’Fmi è in tumulto*

Acque agitate al Fondo monetario internazionale. Già da tempo si discute su come adeguare l’assetto della dirigenza. Ora arriva la proposta di aumentare il peso dei paesi asiatici. Naturalmente, a scapito degli europei che crescono molto più lentamente. Ma che all’interno del Fondo, insieme agli Stati Uniti, hanno maggior potere. Una riforma passa allora per una revisione del sistema delle quote e delle circoscrizioni che portano alla nomina dei direttori. Mentre anche il tacito accordo che vede sempre un europeo al vertice è ormai superato dalla storia.

Anche il calcio ha bisogno di riforme istituzionali

Con la Figc siamo di fronte a un caso da manuale di “cattura” del regolatore da parte dei regolati. Per il sistema calcio è necessaria una cornice istituzionale ad hoc, separando con nettezza gli organi di vertice dai regolati, al fine di accrescerne autorevolezza e imparzialità. Con un ristretto comitato di presidenza dalle competenze rafforzate, alla cui nomina concorrano enti esterni al settore del calcio, si acquisterebbe in incisività pur salvaguardando la rappresentatività. A questo “direttorio” dovrebbero rispondere direttamente Covisoc e Aia.

Lavoce.info, una voce fin troppo saggia

Il gruppo riformista degli economisti italiani ha ben presto suffragato la tesi del declino italiano. Lasciando solo chi chiedeva di liberalizzare il liberalizzabile, comprimere dolorosamente la spesa pubblica corrente, e contemporaneamente governare in deficit nella scommessa che i mercati, se non Bruxelles, avrebbero capito e ratificato la scelta di tirare la crescita con un radicale abbattimento della pressione fiscale compensato e sostenuto da un audace e inedito riformismo strutturale. Così scrive il direttore del Foglio per il nostro quarto compleanno.

Aspettando (ancora) la liberalizzazione

Il prezzo dell’elettricità in Italia resta ai vertici europei, mentre nel gas abbiamo attraversato un inverno a rischio grazie al monopolista nazionale che blocca lo sviluppo delle infrastrutture. Il disegno di legge del ministro Bersani dà solo indicazioni generiche. Forse riparte il processo di liberalizzazione dei mercati energetici. Ma a Eni si dovrebbe imporre di cedere la rete gas. E nell’elettricità occorrerebbe sviluppare meglio la rete di trasmissione, potenziando i collegamenti, per evitare le congestioni.

L’in house tra Europa e Italia

La Corte di giustizia europea riconduce l’in house a un soggetto che opera dentro la pubblica amministrazione ed è funzionale al perseguimento degli interessi generali. Invece, nel nostro paese si conferma il timore della concorrenza in settori cruciali, come i servizi pubblici locali. L’adozione di misure liberalizzatrici più spinte nei settori a chiara vocazione industriale, potrebbe indurre la pubblica amministrazione a cercare di catturare i vantaggi di un mercato effettivamente concorrenziale, a beneficio della sua crescita professionale e degli utenti.

L’energia del Governo

Presentato lo schema di disegno di legge in tema di energia. A parte la richiesta di deleghe per liberalizzazione dei mercati dell’elettricità e del gas, fonti rinnovabili e risparmio energetico, di misure concrete ve ne sono solo due. Una quanto mai opportuna: un fondo da utilizzare per le compensazioni ambientali a enti locali sedi di nuove infrastrutture. Mentre l’altra, la restituzione del fiscal drag energetico, era forse da rimandare. Sono comunque norme ben congegnate. Ma più decisi segnali sulla fiscalità energetica e la lotta ai cambiamenti climatici erano auspicabili.

Perché l’Iva funziona male

Nel loro intervento del 16 giugno Giampaolo Arachi e Alberto Zanardi, con il contributo di Carlo Fiorio che ha sviluppato interessanti considerazioni sugli effetti distributivi, hanno riproposto tal quali le argomentazioni pubblicate su Il Sole-24Ore del 9 giugno 2005. (1)
Un anno fa la manovra sulle aliquote Iva doveva servire a finanziare un alleggerimento dell’Irap, oggi un alleggerimento del cuneo fiscale. Lungi da me intenti polemici, vorrei precisare i motivi che rendono infondata la tesi che attribuisce la scarsa produttività dell’Iva alla struttura delle aliquote applicate in Italia.

Lo studio europeo

Lo studio della Commissione europea cui gli autori fanno riferimento espone i dati relativi allÂ’anno 2000. (2) Incidentalmente osservo che il 2000 rappresenta il massimo storico assoluto nel rendimento dellÂ’Iva italiana dal 1973 in poi: lÂ’Iva di competenza essendo risultata pari al 6,5 per cento del Pil (serie Istat antecedente lÂ’ultima revisione); nel 2005 siamo calati al 5,9 per cento (sempre vecchia serie, vedi il grafico in fondo).
Lo studio è stato condotto su dati delle contabilità nazionali dei singoli Stati membri (Sm) e non già su dati di fonte fiscale come avrebbe dovuto essere. Pertanto, per quanto concerne le proxy delle basi finali imponibili si sono utilizzati dati statistici, mentre per l’aliquota implicita si è fatto il rapporto tra un dato fiscale (l’Iva di competenza per i criteri di Maastricht) e ciò che si ritiene sia la base finale imponibile Iva. Non mi sembra sia questo un procedimento corretto da un punto di vista logico perché inevitabilmente si scambiano tra loro cause ed effetti. È cosa nota, infatti, che tutt’ora permangano seri problemi di confrontabilità dei dati statistici. degli Stati membri. Ergo, i consumi finali della famiglie dei singoli Stati possono non essere tra di loro omogenei, a prescindere dall’ampiezza dei consumi finali esenti.

Un confronto Italia-Francia

Nella tabella 2 sottostante espongo, per due Stati membri, il ragionamento che si dovrebbe fare per capire di cosa stiamo parlando. Per memoria, nella tabella 1 riporto la griglia delle aliquote legali esistenti in Francia e in Italia: le aliquote ridotte sono da noi poco meno che doppie di quelle francesi e l’aliquota normale è di poco superiore (4 decimi di punto).
Utilizzando i dati delle dichiarazioni, con riferimento al 2004 si può osservare che in Francia l’aliquota finale sulle vendite è risultata pari al 16,21 per cento mentre in Italia è stata del 18,06 per cento. In sostanza, se si considerano le operazioni imponibili spontaneamente dichiarate dai contribuenti Iva, l’aliquota finale sulle vendite è risultata in Italia superiore di circa l’11,4 per cento (1,85 punti).
Sugli acquisti con Iva detraibile, sempre spontaneamente dichiarati, l’aliquota francese è risultata pari a 16,46 per cento mentre quella italiana è stata del 19,30 per cento (2,84 punti in più, pari a uno scarto del 17,3 per cento circa). Queste sono dunque le aliquote finali medie che si sono realizzate nel sistema economico dei due Stati membri sulle vendite imponibili e sugli acquisti detraibili.
La sintesi delle due aliquote applicate ai rispettivi flussi determina un’aliquota finale del sistema, sulla base imponibile finale che rimane incisa, che è pari a 15,50 per cento in Francia e 14,80 per cento in Italia (lo scarto è di 7 decimi di punto pari a –4,5 per cento a danno dell’Italia rispetto alla Francia).
A questo punto, anche uno studente liceale capirebbe che la minor resa dellÂ’Iva italiana (cioè il “Vat burden” di cui parla lo studio della Commissione) non dipende dalla griglia delle aliquote bensì da qualcosÂ’altro: gli acquisti portati in detrazione.
Se, per lÂ’Italia, il funzionario che ha redatto il rapporto, un economista dellÂ’ufficio “Economic analysis of taxation”, non è arrivato a questa conclusione non è colpa mia. Di sicuro ha utilizzato un procedimento analitico che lo ha portato fuori strada.
L’aumento delle aliquote comunque mascherato e giustificato non farebbe che complicare la situazione, cioè il cattivo funzionamento strutturale dell’Iva, fornendo una scorciatoia illusoria più volte percorsa in passato. In sostanza, il sistema Iva italiano somiglia molto a uno scolapasta con grossi buchi: l’obiettivo dovrebbe pertanto essere quello di trasformare lo scolapasta in colabrodo (fori significativamente più piccoli).
L’unico argomento che ancora rimane a sostegno della proposta di aumento delle aliquote Iva è dunque squisitamente politico e, come tale, non assoggettabile a obiezioni di tipo logico: si tratta in definitiva della decisione di spostare potere d’acquisto da una parte della popolazione (chi si trova sotto la soglia di povertà, i pensionati al minimo, i salariati a basso reddito) verso le imprese genericamente intese.

(1) “Iva più europea per varare i tagli”, Il Sole-24Ore, 9 giugno 2005.

(2) “Vat indicators”, working paper n.2/2004.

 

Tabella 1: la struttura delle aliquote legali in Francia ed in Italia

• (1) aliquote (2) aliquota (3) aliquota implicita (4) divario in %

• ridotte normale media aliquota normale

• Francia 2,1 5,5 19,6 15,5 22,1

• Italia 4 10 20 15 25

• Media UE-15 – 19,4 15,9 18

 

Tabella 2: lÂ’Iva sulle operazioni imponibili e sugli acquisti detraibili nel 2004

FRANCIA

volumi

imposta

aliquota

Totale operazioni imponibili

2.965.604

Totale imposta

480.806

16,21

Base finale imponibile

769.381

Imposta

119.254

15,50

Acquisti ad Iva detraibile

2.196.223

Imposta

361.552

16,46

ITALIA

volumi

imposta

aliquota

Totale operazioni imponibili

2.287.807

Totale imposta

413.188

18,06

Base finale imponibile

559.115

Imposta

84.229

14,80

Acquisti ad Iva detraibile

1.718.692

Imposta

331.641

19,30

FRANCIA / ITALIA

volumi

imposta

aliquota

Totale operazioni imponibili

129,63

Totale imposta

116,36

89,76

Base finale imponibile

135,19

Imposta

141,58

104,73

Acquisti ad Iva detraibile

127,34

Imposta

109,02

85,28

Nota bene: l’Iva sulla base finale è quella di competenza economica di fonte Istat e Insee.

Riformare si può

Vincere le resistenze politiche ed elettorali alle riforme strutturali è possibile. Governi con ampie maggioranze parlamentari e internamente coesi possono imporre alle opposizioni parlamentari interventi che interessino un vasto strato dell’economia e che favoriscano, nel medio periodo, il loro elettorato. Per Governi meno forti, è invece necessaria una fase di costruzione del consenso politico attraverso la concertazione tra le diverse forze in campo. Soprattutto, però, serve informazione sui costi e i benefici presenti e futuri delle riforme.

Il goal non segna la crescita

L’Italia ha vinto i campionati del mondo di calcio. La banca olandese Abn-Amro aveva accreditato l’Italia di uno 0,7 per cento in più di crescita in caso di vittoria ai mondiali. Ma lo scenario non ha nulla di reale. Infatti, lo studio non cerca di isolare l’effetto della vittoria sul Pil dopo aver tenuto in considerazione tutte le altre variabili che determinano la performance di unÂ’economia. Se poi si guardano i dati, si scopre che chi vince va peggio dal punto di vista economico rispetto all’anno immediatamente precedente e al successivo. E che il paese vincitore cresce meno in media dell’altro finalista.

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