L’inflazione è oggi molto più resistente e meno sensibile ai rialzi dei tassi. La promessa indiretta della Bce di mantenerli invariati d’ora in avanti sembra difficile da mantenere. A meno di non mettere in discussione il target del 2 per cento.
L’inflazione non è domata
Nella sua riunione del 14 settembre, la Banca centrale europea ha alzato i tassi di interesse ai propri massimi storici, segnalando che la lotta all’inflazione non è terminata. Nonostante la ulteriore salita dei tassi, l’euro si è deprezzato, perché allo stesso tempo la Bce ha indicato, nelle proprie comunicazioni, che il ciclo di aumenti dei tassi potrebbe essere vicino alla conclusione. Ciò vuol dire principalmente una cosa: che la Bce si aspetta un significativo rallentamento dell’attività economica nei prossimi due semestri. L’aspettativa di contrazione della crescita per i prossimi semestri ha indotto gli investitori a liberarsi di asset denominati in euro, causando un deprezzamento della valuta.
Nelle proprie dichiarazioni la Bce ha lasciato intendere che i costi di finanziamento dell’Eurozona hanno raggiunto il picco. Si afferma in particolare che “i tassi di interesse hanno raggiunto livelli che, mantenuti per un periodo sufficientemente lungo, daranno un contributo sostanziale al tempestivo ritorno dell’inflazione al target (del 2 per cento)”.
Presa alla lettera, si tratta di una applicazione della “regola della persistenza”, illustrata tra gli altri da Fabio Panetta (membro del board Bce e ora nuovo governatore della Banca d’Italia) in un incontro tenutosi all’Università Bocconi il 3 agosto scorso.
Secondo questa impostazione, quando si guida l’orientamento della politica monetaria, la “persistenza” diventa importante tanto quanto il livello dei tassi ufficiali. In altre parole, raggiunto un certo livello dei tassi di interesse, ci si aspetta un contributo alla disinflazione dalla durata con cui i tassi stessi vengono mantenuti a tale livello.
È una strategia ritenuta utile dalla Bce quando i rischi per le prospettive di inflazione diventano più equilibrati, mentre i rischi per le prospettive economiche si spostano al ribasso.
Eppure, le proiezioni macroeconomiche di settembre degli esperti della Bce per l’area dell’euro vedono l’inflazione media al 5,6 per cento nel 2023, al 3,2 per cento nel 2024 e al 2,1 per cento nel 2025. Cioè un raggiungimento del target di inflazione solo nel 2025.
È in realtà molto difficile immaginare che la discesa dell’inflazione possa avvenire mantenendo invariati i tassi di interesse al livello raggiunto con la decisione presa il 14 settembre. Questo perché una lezione importante che stiamo imparando dall’episodio inflazionistico del 2020-2023 è che la relazione tra inflazione e attività economica è altamente non lineare. Ricorda, cioè, qualcosa di simile a una L rovesciata. Quando l’inflazione è a bassi livelli, è poco sensibile all’attività economica, ed è quindi molto difficile riuscire a influenzarla attraverso variazioni dei tassi di interesse. Quando l’inflazione tende a salire molto, variazioni al rialzo dei tassi che comprimano consumi e investimenti riescono ad avere effetti più rapidi e significativi.
La disinflazione è quindi più facile e rapida nella prima fase, quando il punto di partenza è un livello di inflazione molto elevato, quale quello raggiunto nel 2022. Nella fase attuale abbiamo raggiunto un livello di inflazione “moderato” (una previsione del 5,6 per cento per il 2023), che è però molto difficile da aggredire ulteriormente. Per chiarire meglio, mentre è relativamente facile scendere da un livello di inflazione del 10 a un livello del 5, è molto più difficile, e costoso in termini di rallentamento dell’attività economica, scendere successivamente dal 5 al target del 2 per cento. Il primo tratto di disinflazione (dal 10 al 5) è stato coperto. Ma ora arriva il tratto più complicato, portare l’inflazione al target del 2 per cento.
Rinunciare al target del 2 per cento?
Ovviamente, una posizione alternativa potrebbe essere quella di suggerire alla Bce di accontentarsi di un tasso di inflazione intorno al 4 o al 3 per cento, senza insistere per raggiungere il target del 2 per cento. Nella fase in cui stiamo entrando, quella in cui la disinflazione sarà più difficile, potrebbe essere una facile tentazione per la Bce. La speranza è però che ciò non accada. Perché equivarrebbe a una perdita secca di credibilità per la banca centrale, un capitale che è poi sempre molto difficile da recuperare.
Abbiamo raggiunto la fase 2 della disinflazione. Quella in cui l’inflazione è molto più resistente e insensibile a variazioni dell’attività economica indotte dai rialzi dei tassi di interesse. La promessa indiretta della Bce che i tassi dovrebbero d’ora in poi rimanere invariati sembra molto difficile da mantenere. A meno che non si voglia mettere in discussione qualcosa di ben più grande, cioè il target del 2 per cento.
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Andrea
Ma se in questa fase l’inflazione sarà molto resistente ai tassi di interesse, che senso avrebbe insistere ulteriormente con questo strumento anziché con strumenti ben più efficaci, di natura fiscale o relative alla struttura dei mercati? È un controsenso.
CARLO CATALANO
Ma quando l’inflazione deriva da incremento dei costi legato a uno shock, quale è la guerra in Ucraina con i riflessi sui costi energetici, e non deriva invece da incremento della domanda, ha senso una politica monetaria restrittiva? A mio avviso in questo caso l’aumento dei tassi non è in grado di contenere l’inflazione ma fa ulteriori danni causando recessione. Recessione e inflazione contemporaneamente, la stagflazione, costituiscono un problema difficilissimo da affrontare.
Savino
I governi non hanno fatto nulla contro l’inflazione, ne’ sugli adeguamenti dei salari, ne’ sul controllo dei prezzi, ne’ sulle stesse tariffe anche di servizi pubblici, ne’ cercando di creare le condizioni per una vera concorrenza. Gli interventi BCE sia pur drastici sono inevitabili di fronte alle responsabilità di aver rovinato l’economia da parte di chi ha speculato sulle materie prime, complice il lassismo dei governi
paolo
Quanto vogliamo deprime salari, investimenti, occupazione, servizi, welfare e di fatto diritti per non “sacrificare” la “credibilità” della banca centrale? Che credibilità può avere un’istituzione disposta a distruggere l’economia reale (e con essa la vita di milioni di lavoratori, oltre che la competitività del sistema produttivo europeo) pur di garantire tassi di interesse reali superiori all’inflazione?
Francesco Palmieri
A nessuno viene il dubbio che la relazione tra tassi ed inflazione in tempo di guerra mondiale è diversa da quella tipica dei periodi di espansione economica?
Rimango convinto che la decisione di aumentare i tassi sia drammaticamente sbagliata. Zavorra sul zavorra al vascello che già imbarca acqua.
Quando il mare è in tempesta è meglio stare fermi, abbassare le vele, non appesantire la barca, risparmiare energie, usare il timone solo per gestire al meglio le onde che si possono forse assecondare, ma mai affrontarle. La tempesta deve passare. E se non passa è tutto inutile e spreco di preziose risorse che è meglio risparmiare.
La forza della congiuntura economia è molto maggiore della leva monetaria.
Invece i tecnocrati che gestiscono le leve della politica monetaria, immersi nei loro dati, affezionati agli indottrinamenti di cui si sono, anche giustamente, nutriti per anni, non hanno la lucidità di comprendere la straordinarietà del periodo. E quindi, si affidano al più classico e scolastico rimedio dell’aumento dei tassi, sperando che funzioni.
Così si può dire di aver posto uno scoglio ad arginare il mare, come quello di Lucio Battisti.
Jacopo Tramontano
Si può e si deve abbandonare il 2%, ma forse non è abbastanza. O meglio, chi è che paga i costi dell’inflazione? La questione distributiva in questo caso è centrale, e va gestita con politiche fiscali o anche di controllo dei prezzi di alcune materie prime. La Spagna è un esempio virtuoso in tal senso, sarebbe interessante vedere se è replicabile, magari anche a livello europeo.
firmin
La strategia della BCE contro l’inflazione mi ricorda quella del “paracetamolo e vigile attesa” suggerita dal ministero della salute contro il COVID. Dopo aver riconosciuto che questa è essenzialmente una inflazione da profitti (innescata dai costi delle materie prime) e non da domanda, non capisco perché ostinarsi ad aumentare i tassi (che deprimono la domanda ma non necessariamente i profitti unitari). Più in generale, qualsiasi progettista sarebbe licenziato su due piedi se costruisse macchine fatte per raggiungere un singolo obiettivo trascurando tutti gli altri. Altrimenti viaggeremmo su bolidi da formula uno (velocissimi, ma scomodi, rumorosi ed inquinanti) oppure su trattori (potenti, ma lenti ed enormi). Invece sembra che ai banchieri centrali siano perdonati progetti anche più surreali.
Antonio Frascogna
Il problema sarà trovare altre modalità non monetarie di stimolo alla domanda quando arriverà la recessione. Certo che le banche centrali, compreso la BCE, oggi utilizzano gli strumenti di politica monetaria in maniera ibrida: è da ipotizzare un QE basato solo sugli strumenti non convenzionali, iniezione di liquidità mantenendo i tassi alti ad esempio? Cosa che in parte già accade, altrimenti non si spiega lo spread sul decennale btp-bund così basso. Già la FED ha rallentato il QT, come si può vedere dal suo bilancio, il quale non diminuisce più al ritmo di qualche mese fa. Entro fine anno ci ritroveremo probabilmente in uno scenario di stagflazione, situazione che sarà davvero difficile da affrontare e non credo che le banche centrali abbiano il potere di risolverla.