La relazione del Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia traccia un quadro del fenomeno, indicando il numero dei lavoratori più a rischio. All’analisi affianca un pacchetto di proposte di riforma.
Il quadro della situazione
Avere un lavoro non è sufficiente per non cadere in povertà, in particolare in Italia. Nel dibattito pubblico, la povertà lavorativa è spesso collegata a salari insufficienti. Tuttavia, la povertà lavorativa, così come la povertà in generale e la disuguaglianza, è il risultato di un processo che, oltre al salario orario, riguarda i tempi di lavoro (ovvero quante ore si lavora abitualmente a settimana e quante settimane si è occupati nel corso di un anno), la composizione familiare (in particolare quante persone percepiscono un reddito all’interno del nucleo) e l’azione redistributiva dello stato (Figura 1).
Figura 1 – La “catena” di creazione di povertà e disuguaglianza
Come si definisce un lavoratore povero? Secondo l’indicatore adottato dall’Unione europea, un individuo è considerato in condizione di in-work poverty (Iwp) se dichiara di essere stato occupato per almeno sette mesi nell’anno e se vive in un nucleo familiare che gode di un reddito equivalente disponibile inferiore al 60 per cento del reddito mediano nazionale. Nella Relazione che abbiamo preparato su richiesta del Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Andrea Orlando, abbiamo deciso di andare oltre questo indicatore, per mostrare più chiaramente l’interazione fra i rischi di bassi salari individuali e di povertà valutata su base familiare. Per questo, abbiamo incluso nelle nostre analisi anche i lavoratori occupati per meno di sette mesi all’anno che sono tra i più esposti al rischio di povertà.
Usando i dati Eu-Silc per il periodo 2006-2017, troviamo un’incidenza della povertà lavorativa (valutata su base familiare) pari al 13,2 per cento (un valore più alto di 0,9 punti percentuali rispetto a quello riportato dall’indicatore Ue), in netta crescita dal 10,3 per cento del 2006 e concentrata in particolare tra i lavoratori autonomi e a tempo parziale (Tabella 1).
Nel 2017, il rischio di povertà lavorativa era pari, rispettivamente, al 14,2 per cento fra gli uomini e all’11,8 per cento fra le donne. Un risultato paradossale, viste le note difficoltà delle donne nel mercato del lavoro. Tuttavia, il dato dipende quasi esclusivamente dal fatto che le donne in molti casi sono “solo” il secondo percettore di reddito: l’incidenza della povertà lavorativa nel 2017 passa, infatti, dal 22,1 per cento nelle famiglie con solo un percettore di reddito al 7 per cento nelle famiglie con due percettori. Se, invece, passiamo dal livello familiare a quello individuale (Tabella 2), quindi considerando la quota di lavoratori con retribuzioni individuali inferiori al 60 per cento della retribuzione mediana, la quota di lavoratori poveri risulta, nel 2017, pari al 16,5 per cento fra gli uomini e al 27,8 per cento tra le donne.
La Tabella 2 mostra, inoltre, che il sistema fiscale e di trasferimenti gioca un ruolo importante nell’attenuare i rischi di bassa retribuzione, seppure senza riuscire a compensare sufficientemente quelli legati a un lavoro a tempo parziale e autonomo (sul quale incide, peraltro, la più elevata aliquota contributiva).
Le proposte del Gruppo di lavoro
Di fronte all’aumento della povertà lavorativa, l’unica misura introdotta con l’obiettivo esplicito di aumentare le retribuzioni medio-basse è stata quella dei cosiddetti “80 euro”, che si basano sul salario individuale e non sono corrisposti a chi ha un reddito talmente basso da risultare incapiente a fini fiscali. Il reddito di cittadinanza è, invece, una forma di reddito minimo indirizzato primariamente a chi ha reddito e patrimonio molto limitati. Per questo motivo, seppur sottolineando come una strategia di lotta alla povertà da lavoro debba partire innanzitutto da politiche macroeconomiche e misure che incidano su struttura produttiva e partecipazione attiva, nella nostra relazione, a cui rimandiamo per i dettagli, abbiamo avanzato cinque proposte indirizzate a sostenere i redditi individuali e familiari.
1. Minimi salariali adeguati sono una condizione necessaria (ma non sufficiente) per combattere la povertà lavorativa tra i lavoratori dipendenti. Nel caso italiano, sono due le opzioni da tempo in discussione: estendere l’applicazione dei contratti collettivi principali a tutti i lavoratori del settore interessato (quindi anche alle imprese che non hanno firmato quel contratto) oppure introdurre un salario minimo per legge. Le due opzioni si scontrano con ostacoli politici e tecnici che da anni bloccano ogni progresso sul tema. Per questo motivo, suggeriamo di partire con la sperimentazione di un salario minimo per legge o griglie salariali basate sui contratti collettivi in un numero limitato di settori, caratterizzati da maggiore criticità per valutarne gli impatti economici e quelli sul sistema di relazioni industriali.
2. Al di là della fondamentale attività ispettiva, consideriamo cruciale potenziare l’azione di vigilanza documentale, cioè basata sui dati che le imprese e i lavoratori comunicano alle amministrazioni pubbliche, costruendo indici di rischio a livello di impresa o settore per permettere un confronto sulle anomalie riscontrate e, nel caso persistano, studiare strategie di intervento interagendo con le imprese oppure guidando la vigilanza ispettiva.
3. In Italia, manca uno strumento per integrare i redditi dei lavoratori poveri – un in-work benefit (letteralmente trasferimento a chi lavora) – che permetterebbe di aiutare chi si trova in situazione di difficoltà economica e incentiverebbe il lavoro regolare. Il beneficio dovrebbe assorbire gli “80 euro” (ora “bonus dipendenti”) e la disoccupazione parziale per arrivare a uno strumento unico, di facile accesso e coerente con il resto del sistema (in particolare, reddito di cittadinanza e assegno unico e universale per i figli). Sulla base delle esperienze internazionali, il trasferimento dovrebbe essere definito a livello individuale per non disincentivare il lavoro del secondo percettore e crescere fino a una certa soglia di reddito per poi stabilizzarsi e quindi decrescere. Tuttavia, per evitare che un in-work benefit possa trasformarsi, surrettiziamente, in un incentivo al lavoro povero, una misura di questo tipo deve accompagnarsi alla presenza e al rispetto di minimi salariali adeguati e, più in generale, al controllo del numero di ore di lavoro e dei salari dichiarati.
4. Alle tre misure precedenti è possibile affiancare forme di accreditamento per incentivare le imprese a pagare salari adeguati (si veda l’esperienza del Living wage nel Regno Unito) oppure di name and shame per chi, al contrario, non rispetta la normativa sul lavoro. Per i lavoratori, poi, servono strumenti e campagne per aumentare la leggibilità dei Ccnl e dei vari strumenti di sostegno al reddito per assicurarsi che chi che ne ha bisogno possa avervi effettivamente accesso. È importante, inoltre, un’adeguata e tempestiva informazione sulle prospettive pensionistiche (la cosiddetta “busta arancione”) per mettere in risalto i rischi derivanti dal cumulo di situazioni di svantaggio. Infine, seguendo l’esperienza del programma “VisitInps”, un più facile accesso ai tanti dati che le amministrazioni pubbliche (nazionali e locali) raccolgono nell’espletamento delle loro funzioni consentirebbe di promuovere la ricerca in materia e misurare l’effetto che strumenti diversi possono avere nel contrastare il fenomeno.
5. Infine, riteniamo utile che il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali si faccia promotore di una revisione dell’indicatore europeo con l’obiettivo di estendere la platea di riferimento a tutti coloro che sono occupati almeno una volta in un anno e prendere in considerazione anche i redditi da lavoro degli individui oltre che il reddito equivalente di cui dispongono all’interno del nucleo familiare in cui vivono.
Figura 2 – Come le cinque proposte per combattere la povertà lavorativa si inseriscono nella catena di creazione di povertà e diseguaglianze
Ciascuna proposta insiste su uno o più degli anelli della catena di creazione di povertà e disuguaglianza (Figura 2). Le proposte vanno perciò considerate nel loro complesso: presa isolatamente, nessuna appare infatti risolutiva. Anzi, se non combinate con altre, alcune proposte rischiano di essere inefficaci (un salario minimo senza controlli più stringenti) o dannose (un in-work benefit senza minimi salariali adeguati e rispettati). Se prese insieme, invece, le cinque proposte potrebbero permettere di fare un passo avanti per garantire condizioni di lavoro dignitose nel presente che siano anche fonte di sicurezza economica nel futuro.
*Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano esclusivamente il punto di vista degli autori e non riflettono la posizione delle istituzioni a cui appartengono né quella del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
Questo articolo è apparso in contemporanea sul Menabò di Etica ed Economia.
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