A pochi mesi dal voto europeo, quattro paesi Ue hanno bloccato i negoziati sulla proposta di direttiva europea per la protezione dei lavoratori delle piattaforme digitali. Con possibili conseguenze anche sul regolamento AI. Cosa non ha funzionato?

Proteggere i finti lavoratori autonomi

La proposta di direttiva sul lavoro dei platform workers era uno dei provvedimenti più qualificanti della Commissione guidata da Ursula von der Lyen. La norma, approvata dal Parlamento europeo con sostanziosi emendamenti rispetto al testo della Commissione, mirava a proteggere non solo i lavoratori addetti al food delivery, ma tutti quelli che forniscono servizi tramite piattaforma digitale. E mirava a combattere il finto lavoro autonomo grazie a una presunzione di subordinazione di tutti gli addetti, collegata a una serie di indici, tra i quali il penetrante controllo dell’algoritmo, salvo prova contraria a carico della piattaforma. 

La maggior parte dei lavoratori delle piattaforme nell’Unione europea – come i tassisti, i lavoratori domestici, gli addetti alla consegna di cibo – sono oggi qualificati come lavoratori autonomi, in quanto non contrattualmente vincolati circa il tempo della prestazione e la continuità della disponibilità per rispondere alle chiamate. Tuttavia, i tribunali di molti paesi dell’Ue, tra cui il nostro, decidono lo status occupazionale dei lavoratori delle piattaforme caso per caso: a seconda del modo di lavorare e del tipo di controllo sulle prestazioni stabiliscono se i lavoratori possono avere accesso o no alle tutele lavoristiche. La proposta di direttiva aveva la finalità di garantire una legislazione uniforme in tutta Europa, grazie al meccanismo della presunzione di subordinazione. Stabiliva anche le prime norme dell’Ue sull’uso degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale nel posto di lavoro.

Lo stallo nei negoziati

Dopo più di due anni di estenuanti negoziati e svariati compromessi (come, per esempio, l’inasprimento dei requisiti necessari perché scatti la presunzione di subordinazione, che passano da 2 su 5 a 3 su 7) il 22 dicembre 2023 la presidenza spagnola prende atto della impossibilità di raggiungere la maggioranza necessaria sull’accordo provvisorio tra i rappresentanti degli stati membri. All’inizio di gennaio di quest’anno, sotto la presidenza belga, riprendono i negoziati tra i governi nazionali e il Parlamento europeo per un accordo sulla versione definitiva della direttiva. All’inizio di febbraio la presidenza belga trova un accordo politico per una direttiva light sui criteri di classificazione dei lavoratori che possa andare bene al Consiglio, dando più spazio alle legislazioni nazionali. Ma non basta a far approvare la proposta perché il testo presenta una formulazione giuridica che causerebbe problemi di recepimento e l’assenza di qualsiasi armonizzazione nell’applicazione della presunzione legale tra gli stati membri.

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Grecia, Germania, Francia ed Estonia, al momento del voto, decidono di astenersi. Con il sistema di voto a maggioranza qualificata, una proposta viene adottata in Consiglio quando vota a favore almeno il 55 per cento degli stati membri, che rappresentano almeno il 65 per cento della popolazione totale dell’Ue. Tuttavia, una “minoranza di blocco”, come in questo caso, può verificarsi quando quattro o più stati membri scelgono di votare contro o di astenersi (art. 16 Tue). Il dossier sembra di fatto rinviato alla prossima legislatura.

Le ragioni del mancato accordo

Perché non si è trovato l’accordo? La risposta sta, in primo luogo, nella mancanza di una definizione di “lavoratore subordinato” al livello dell’Unione. In secondo luogo, nella incertezza sui meccanismi di operatività della presunzione che incide sulla riclassificazione come subordinati dei lavoratori delle piattaforme digitali.

Sul primo punto, va osservato che allo stato attuale le caratteristiche che determinano la qualificazione di un contratto o di un rapporto di lavoro come subordinato o autonomo sono di competenza nazionale e, per questo motivo, variano da stato a stato. Ciò comporta una volatilità delle piattaforme digitali, che si muovono a seconda delle convenienze, spostandosi nei paesi in cui il costo del lavoro è inferiore, sfruttando il vuoto normativo che di fatto ancora esiste al livello europeo. Per questo motivo la Commissione aveva originariamente avanzato la proposta, bocciata dalle parti sociali e dal Parlamento europeo, di un terzo status o terzo tipo contrattuale che recepisse a livello europeo le caratteristiche socio-economiche dei lavoratori che lavorano tramite piattaforme digitali cui collegare specifiche tutele nell’ottica di garantire a questo tipo speciale di lavoro parità di condizioni nel mercato unico.

È importante sottolineare che il lavoro mediante piattaforme digitali è un fenomeno complesso e che molte persone che vi lavorano sono correttamente qualificate come lavoratori autonomi. Il rischio di una errata classificazione, tuttavia, è altissimo. Riclassificare il lavoratore come subordinato significa applicare tutte le tutele del lavoro nell’impresa, anche quelle previdenziali. Per avere una idea di cosa questo significhi, basti pensare al caso italiano nel quale i ciclofattorini addetti al food delivery possono essere assunti come lavoratori subordinati o come lavoratori autonomi. E a seconda dei casi è possibile applicare tutele differenti scegliendole da una sorta di menù. È il caso di Just Eat che, proprio per evitare una errata classificazione del personale, ha assunto un terzo dei ciclofattorini necessari a saturare i turni di lavoro per poche ore a settimana, negoziando pesanti deroghe al contratto collettivo nazionale di lavoro, e lasciando che gli altri ciclofattorini venissero ingaggiati direttamente dai ristoratori con i contratti più disparati.

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Quanto al costo del lavoro, è a tutti evidente che non è possibile equiparare i lavoratori digitali o i lavoratori cognitivi che operano tramite piattaforme ai lavoratori subordinati inseriti nell’impresa e assoggettati a un rigoroso orario di lavoro. I lavoratori digitali/cognitivi sono pagati in base alla loro prestazione e, quindi, al risultato che sono in grado di raggiungere in totale autonomia, al punto che riescono a svolgerlo fuori dall’impresa, da remoto, senza vincolo di orario e gestiti da un algoritmo.

Cosa succede adesso

  • Lo stallo cui è giunto il negoziato può avere ripercussioni negative anche sul regolamento sull’Artificial Intelligence, che non tiene conto della diversità delle norme sulle condizioni di lavoro nei diversi stati membri e non introduce nessuna tutela aggiuntiva per le persone che sono interessate, direttamente o indirettamente, dai sistemi di AI, come i lavoratori delle piattaforme.
  • Il regolamento, infatti, si limita a garantire che i sistemi di AI ad alto rischio immessi sul mercato siano sicuri e che rispettino i principi fondamentali della Carta, come il divieto di discriminazioni per il trattamento di determinati dati, come lo stato emotivo, l’affiliazione religiosa o la sessualità, le opinioni politiche o l’appartenenza sindacale, la classificazione di dati biometrici o la profilazione, andando sostanzialmente oltre il regolamento generale sulla protezione dei dati dell’Ue (Gdpr). L’obiettivo è garantire una AI affidabile e antropocentrica, che sia assoggettata a penetranti controlli di sicurezza prima della immissione nel mercato e prima del suo utilizzo. Anche le piattaforme utilizzano sistemi di AI e per questo motivo è assai opportuno che almeno il regolamento vada a buon fine.

Lo spazio regolativo può essere colmato dalla contrattazione collettiva grazie alla esenzione Ue degli accordi collettivi per i lavoratori autonomi in posizione di dipendenza economica o in posizione di debolezza contrattuale, ricomprendendo, tra questi, i lavoratori tramite piattaforme digitali. Sarebbe quindi opportuno che i sindacati, sia nazionali sia europei, prendessero l’iniziativa e iniziassero a dettare con un accordo quadro europeo o un accordo interconfederale le linee per la protezione di questa nuova categoria di lavoratori.

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