Una delle prime iniziative del rieletto Trump sarà l’aumento dei dazi verso i prodotti di altri paesi, cinesi in primo luogo, ma anche europei. La Ue potrebbe trovarsi nella posizione più difficile, anche per la dipendenza dagli Usa per gas e petrolio.
La certezza di nuovi dazi
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca è stato salutato dai mercati con un forte rialzo degli indici di borsa americani e del dollaro. Ci si aspetta che, tornato alla guida della prima economia del mondo, il presidente eletto dia un forte impulso alla redditività delle aziende a stelle e strisce attraverso una nuova deregolamentazione, minori tasse e maggiore protezione rispetto alla concorrenza estera. Da qui la scommessa che dal cambio di amministrazione derivi un ulteriore aumento del deficit fiscale, una più elevata inflazione e pertanto tassi d’interesse più alti.
La cosa su cui c’è certezza quasi assoluta è che saranno alzate nuove barriere all’ingresso nel grande mercato americano. “I dazi sono la cosa migliore mai inventata” ha ripetuto Trump in varie occasioni durante la campagna elettorale ed è con questo strumento che intenderà modellare i rapporti con i principali partner commerciali.
Dal 2009, quando con i primi dazi sugli pneumatici cinesi e 25 ricorsi alla World Trade Organization Barack Obama ha invertito oltre due decenni di liberalizzazione commerciale e di abbassamento di dazi e tariffe doganali, gli Usa hanno dedicato sempre maggiore attenzione allo squilibrio della loro bilancia commerciale e aumentato il controllo nelle pratiche commerciali con le maggiori economie, la Cina soprattutto, ma anche l’Unione europea. Nel primo mandato di Trump si è avuta un’accelerazione, con nuovi dazi imposti su circa 380 miliardi di dollari di beni importati, per la gran parte provenienti dalla Cina. Dazi confermati quasi per intero anche dall’amministrazione Biden e che hanno avuto l’effetto di comprimere sia l’import, giunto nel 2023 a 447 miliardi di dollari, il livello più basso dal 2012, che il deficit commerciale con Pechino. Anche i dati della prima metà del 2024 confermano import e deficit bilaterali in diminuzione.
I contraccolpi sulle aziende europee
Se fosse una partita solo tra Usa e Cina, si potrebbe concludere che lo strumento ha funzionato e raggiunto l’obiettivo. Nel mondo globalizzato, però, l’approccio ottocentesco degli scambi bilaterali che si orientano secondo la competitività di prezzo potrebbe farci perdere la visione d’insieme e cioè il fatto che le aziende cinesi possano avere mantenuto la penetrazione nel mercato americano, non in modo diretto, ma in modo indiretto attraverso catene di subfornitura di altri paesi. I principali indiziati sono Vietnam e Messico, che hanno da un lato aumentato le importazioni dalla Cina (dal 2018 +55 per cento per il Vietnam e +72 per cento per il Messico) e dall’altro incrementato l’export verso gli Usa, con il Messico che ha superato la Cina come principale fornitore dell’economia Usa e il Vietnam che in soli cinque anni ha più che raddoppiato le esportazioni. Così, mentre nel 2023 il deficit commerciale degli Usa verso la Cina è stato 32 miliardi di dollari più basso di quello registrato nel 2015, quello con Messico e Vietnam nel complesso è cresciuto di 276 miliardi.
Adesso ci si aspetta che Trump, tenendo fede alle promesse elettorali, dia un nuovo giro di vite alle tariffe doganali per accedere al mercato americano: tra il 10 e 20 per cento su tutti i prodotti importati, fino al 60 per cento su quelli cinesi. Difficile ipotizzare che le imprese europee non vengano colpite, visto che il surplus commerciale dell’Eurozona verso gli Stati Uniti ha ormai superato quello cinese. L’effetto sarà probabilmente quello di diminuire la competitività di prezzo delle merci prodotte dalle imprese straniere (e aumentare quindi i costi all’importazione per l’economia americana), ma anche quella di spingere i paesi più colpiti a trovare rotte alternative per l’accesso agli Usa, aumentare la presenza in altre aree commerciali verso le quali dirigere l’eccesso di capacità produttiva e adottare misure di ritorsione verso le imprese americane.
In quello che si annuncia come un nuovo round di guerra commerciale tra le principali aree produttive del pianeta, l’Unione europea appare la più fragile, destinata ad affrontare una tempesta perfetta. Se le restrizioni Usa dovessero veramente incidere sullo sbocco commerciale dei beni cinesi, non è difficile immaginare che l’enorme eccesso di capacità produttiva cinese possa riversarsi, a prezzi ancora più competitivi, sul mercato europeo. Inoltre, dopo l’invasione russa in Ucraina, nel rapporto tra Usa e Ue pesa pure la dipendenza del sistema produttivo europeo dal gas e dal petrolio americano. Una eventuale ritorsione europea ai dazi Usa non potrà non tenerla in giusto conto.
Nell’incertezza nei rapporti commerciali prodotta dal secondo mandato a Trump alla guida degli Stati Uniti, rimane comunque evidente che ormai da anni, almeno dalla grande crisi finanziaria del 2008, oltreoceano si dimostrano sempre più insofferenti ad assorbire l’eccesso di risparmio delle altre zone del pianeta. Il ruolo di consumatore di ultima istanza svolto per decenni dagli Usa, che chiudeva il deficit di domanda interna delle aree in surplus (Cina e Germania su tutte), è sempre meno scontato. Per non soccombere l’Unione europea dovrà favorire la domanda interna e ridurre la dipendenza dal mercato americano. Per farlo, serviranno investimenti che aumentino la competitività delle imprese, ma anche una maggior propensione al consumo dei cittadini europei.
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Paolo
Bene. Tutto giusto. Sarebbe interessante fare il passo successivo, ovvero tracciare scenari politici. Ovviamente non è compito di questo giornale, ma è inevitabile domandarsi che cosa succederà se la solita ritrosia nordica dei secredenti falchi si metterà di mezzo. Appare evidente la necessità di fare passi avanti nell’integrazione europea (costituzione europea, debito comune, sostegno ai redditi e allo stato sociale, investimenti pubblici), ma appare altrettanto evidente che in mancanza di consenso, come sembra, è fondamentale rimuovere i vincoli di spesa ai singoli paese. È un percorso che sarebbe auspicabile fare insieme perché sia più efficace, ma è indispensabile che le regole economiche dell’Unione smettano di essere un ostacolo.
Giacomo
Effetto collaterale della guerra in Ucraina, l’Europa è diventata dipendente dagli USA per l’energia.
Edwin Abbott
Se l’Unione europea non diventa un soggetto federale entro 5-10 anni, Trump e Putin avranno vinto e i 27 nani (con il mezzo miliardo di pedoni che pagano le tasse) avranno perso.