Davvero il posto fisso è sempre più un miraggio? In realtà la contrazione delle assunzioni a tempo indeterminato registrata dal rapporto Unioncamere mostra la diminuzione dei passaggi da un’impresa a un’altra di lavoratori già assunti a tempo indeterminato. La crisi ha ridotto drasticamente questo tipo di mobilità nel mercato del lavoro, irrigidendo le posizioni. Nel nostro paese, l’accesso al tempo indeterminato avviene per lo più attraverso la trasformazione di un contratto a termine. E in questi anni la quota di lavoro a tempo determinato non è aumentata.

Con grande enfasi televisioni e giornali hanno commentato le previsioni di Unioncamere-Excelsior per il terzo trimestre 2012. In particolare, i media si sono soffermati sul dato secondo cui su 158.840 assunzioni previste, quelle a tempo indeterminato sarebbero il 19,8 per cento (35,7 per cento al netto delle assunzioni stagionali).(1) Se ne ricava che “il posto fisso è sempre più un miraggio” (Repubblica), “il posto fisso? resta il sogno proibito per l’80 per cento dei nuovi assunti” (Corriere della sera) e così via commentando.

LE VIE DELL’ASSUNZIONE

In realtà bisognerebbe chiedersi se l’indicatore utilizzato (rapporto tra assunzioni a tempo indeterminato e assunzioni totali) è appropriato rispetto al fenomeno che si vuole commentare, cioè la crescita/diminuzione del tasso di occupati temporanei e, quindi, per approssimazione crescita/diminuzione della precarietà? La risposta non può essere che negativa.
Non c’è nulla di strano nel fatto che le assunzioni a tempo indeterminato siano una frazione modesta delle assunzioni totali. E ciò non solo per il fatto che le assunzioni temporanee di lavoratori dipendenti – nelle forme del contratto a tempo determinato o di apprendistato o di somministrazione – sono quasi continuamente cresciute, per diverse ragioni, negli ultimi vent’anni. (2) Ma anche perché è del tutto normale, data la nostra legislazione e la struttura degli incentivi connessi, che l’accesso al tempo indeterminato avvenga attraverso la trasformazione di un contratto a termine piuttosto che attraverso un’assunzione direttamente a tempo indeterminato.

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I dati amministrativi sulle comunicazioni obbligatorie delle imprese possono servire a chiarire meglio il tema. Analizziamo i risultati d’insieme di un gruppo di sette regioni o province autonome del Centro Nord. Si tratta di dati “solidi”, a consuntivo, che includono tutte le assunzioni con rapporto di lavoro dipendente (incluse quelle di brevissima durata), a esclusione dei contratti di lavoro intermittente e dei contratti di lavoro domestico.
Le assunzioni sono evidentemente diminuite negli anni della crisi: da 3 milioni nel 2008 ci si è attestati nel triennio successivo su 2,4-2,5 milioni e la contrazione delle assunzioni a tempo indeterminato è stata più che proporzionale, cosicché sono scese dal 21 per cento (oltre 600mila) al 16 per cento (circa 400mila). Ma le trasformazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, pur registrando anch’esse la crisi soprattutto nel 2009, sono rimaste più stabili: il valore del 2011 (191mila) è di poco inferiore a quello del 2008 (201mila). E perciò la quota delle trasformazioni sul totale degli ingressi in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato è aumentata, passando dal 24 al 32 per cento. Che significato attribuire allora alla contrazione delle assunzioni a tempo indeterminato? Rappresenta essenzialmente un indice di diminuzione della mobilità nel mercato del lavoro, vale a dire di passaggi da un’impresa a un’altra di lavoratori già assunti a tempo indeterminato e che, per spostarsi, non accettano condizioni contrattuali inferiori. La crisi ha ridotto drasticamente questo tipo di mobilità nel mercato del lavoro, irrigidendo le posizioni.

IL LAVORO TEMPORANEO

Che invece la quota di temporaneità – che errando si pretende di dedurre dalla quota di assunzioni a tempo indeterminato sul totale – non sia in questi anni di crisi aumentata, lo si vede bene nei dati sulle variazioni delle posizioni di lavoro (saldo tra assunzioni e trasformazioni e cessazioni): il calo delle posizioni di lavoro a tempo indeterminato è ben inferiore a quello registrato per le posizioni a termine.

Un trend analogo lo ritroviamo anche nei dati Istat che per il 2009 e il 2010 segnalano, rispetto al 2008, la riduzione della quota di occupati a tempo determinato. Sembra diverso il trend del 2011: secondo Istat gli occupati a termine sono in aumento e quelli a tempo indeterminato sono in calo, mentre nei dati amministrativi il risultato è invertito. La spiegazione è semplice: i dati Istat, essendo medie annuali, risentono degli accenni di ripresa nella prima parte dell’anno poi naufragati nel secondo semestre, mentre i dati amministrativi, essendo rilevati sulla situazione di fine anno, registrano efficacemente l’ulteriore irrigidimento delle posizioni a tempo indeterminato dovuto ai cambiamenti delle regole di accesso al pensionamento.
In sostanza, l’economia e la società italiana hanno già gravi e nuovi problemi – in primis la crisi della domanda e quindi dell’occupazione. Non serve leggere ulteriori peggioramenti anche dove, magari paradossalmente, (ancora) non ci sono.

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(1) Si tratta di assunzioni “dirette”, che escludono quindi i contratti di somministrazione come pure i contratti di lavoro a progetto e i rapporti di lavoro occasionali.
(2) L’apprendistato rimane sostanzialmente tale anche se dall’autunno 2011 è cambiata la sua classificazione giuridica.

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