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Next Generation EU: ecco il Piano dell’Italia

Il Piano di ripresa e resilienza è ben fatto. Ma tanti sono i progetti da realizzare e le risorse da spendere in poco tempo. Trovare la governance adatta ed evitare i rischi di possibili fibrillazioni politiche richiede un consenso ampio nella società.

Gaudete omnes, habemus planum! È stato finalmente presentato (in bozza) al Consiglio dei ministri il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) che specifica come l’Italia intende spendere i soldi che saranno messi a disposizione del paese dal Next Generation-EU (NG-EU) nei prossimi sei anni. Una volta approvato dal Consiglio dei ministri, verrà presentato in Parlamento e poi formalmente in Europa, anche se da un punto di vista informale i contatti tra i nostri tecnici e la task force istituita nella Commissione vanno avanti da mesi. E infatti non si capisce bene perché il governo ci sia rimasto seduto sopra così a lungo, secretandone i contenuti e prendendosi continue critiche sui ritardi, quando in realtà si sapeva che il lavoro del comitato tecnico (Ctv) incaricato di predisporlo per conto del Comitato interministeriale per gli Affari europei era già molto avanti.

La lettura delle 125 pagine del Pnrr suscita due impressioni contrastanti. Primo, il Piano è ben fatto e coerente al proprio interno. Individua correttamente le molte debolezze del sistema Italia e specifica come le risorse del NG-EU possano contribuire a risolverle. Alcune proposte restano vaghe, ma nella maggior parte dei casi il Piano è abbastanza concreto, si capisce cosa si intende fare. I contenuti più specifici – come il riparto dei fondi per grandi aeree – verranno ora giustamente sottoposti a esame critico da parte del Parlamento, ma l’impressione generale è favorevole. La seconda impressione, però, nasconde un timore: speriamo che non si tratti solo di un libro dei sogni. Se i sogni diventeranno realtà, dipenderà molto dalla capacità di gestione del Pnrr.

I contenuti del Piano di ripresa e resilienza

Vediamo prima qualche dettaglio del piano. Il Pnnr pianifica di spendere 209 miliardi di euro entro il 2026, di cui 193 dalla Recovery e Resilience Facility (Rrf) e il resto da altri fondi europei previsti nel NG-EU (React EU e Just Transition Fund). Dei 193 miliardi della Rrf, 65 sono sovvenzioni e 128 prestiti. Come del resto già chiarito nella Nadef (nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza) prima e nella legge di bilancio dopo, il Pnrr prevede di usare tutti i soldi delle sovvenzioni (i 65 della Rrf più quelli degli altri fondi, circa 80 miliardi) per finanziare “spesa addizionale”, mentre solo una parte dei prestiti verrà usata a tal scopo. La parte restante servirà a finanziare “spesa già prevista”, sia pure almeno in teoria sempre in linea con i criteri del NG-EU.

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Tutto ciò, naturalmente, è il risultato di un compromesso raggiunto con la Commissione. Poiché le sovvenzioni sono debito a carico del bilancio europeo, il compromesso riduce la pressione su quello italiano (solo 30 miliardi circa saranno “debito in più”), ma ha lo svantaggio di diluire l’effetto espansivo che le risorse europee, in quanto aggiuntive, avrebbero potuto dare all’economia italiana. In più, altro elemento di compromesso, mentre una parte rilevante delle risorse andranno in investimenti, un’altra parte finanzierà una tantum spesa corrente o riduzioni nella pressione fiscale, sebbene sempre in progetti in qualche modo legati al Piano. Per esempio, una buona parte delle risorse, immediatamente disponibili, del React EU, circa 10 miliardi, serviranno per finanziare la fiscalità di vantaggio al Sud nei prossimi anni.
Come verranno impiegati i soldi della Rrf? Il Piano è articolato in sei missioni, a loro volta suddivise al loro interno. In linea con le indicazioni europee, 49 miliardi saranno impiegati per la “digitalizzazione” (di cui 10 per la digitalizzazione della pubblica amministrazione e 35 per sostenere l’innovazione digitale e l’internazionalizzazione delle imprese), 74 per la “transizione ecologica” (di cui 40 per la riqualificazione degli edifici e 9 per le risorse idriche), 28 per la “mobilità sostenibile” (di cui 24 per l’alta velocità e un piano straordinario di manutenzione stradale), 19 per “istruzione e ricerca”, 17 per “parità di genere e coesione sociale e territoriale” e (solo) 9 per la sanità, in particolare per l’assistenza di prossimità e la telemedicina.

Va anche detto che l’utilizzo dei soldi è solo una parte del Pnrr. Il Piano richiede anche l’approvazione di numerose riforme legislative che dovrebbero accompagnare l’uso delle risorse e renderlo efficace. Per esempio, in linea con le raccomandazioni europee all’Italia, il documento si apre con una dettagliata proposta di riforma del sistema giudiziario, già presentata in Parlamento, in particolare per quello che riguarda la giustizia civile. Altre riforme sono previste sul sistema tributario, sul mercato del lavoro e così via.

Usando il modello di simulazione della Commissione, il governo stima in 2,4 per cento l’incremento cumulato del Pil che si otterrebbe nel 2026 dall’attuazione del Pnrr. Ma è chiaro che se davvero riuscissimo a realizzarlo nei tempi previsti, gli effetti sarebbero probabilmente maggiori: per esempio, nelle stime si considerano solo gli effetti moltiplicativi della spesa e non l’impatto delle riforme.

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Come realizzare i progetti

La domanda vera è come riusciremo a realizzare tutti i progetti e a spendere tutti i fondi nei tempi previsti. Una parte rilevante delle risorse (il 70 per cento per le sovvenzioni del Rrf) devono essere spese entro il 2023; tutti i progetti devono essere approvati entro quell’anno e le risorse spese entro il 2026. Per fare un confronto, negli ultimi sette anni siamo riusciti a impegnare solo il 40 per cento dei 40 miliardi previsti nell’ultima programmazione dei fondi strutturali europei

Il governo propone di risolvere il problema attraverso l’introduzione di uno specifico meccanismo di governance. Ogni missione verrebbe affidata a un “responsabile”, con poteri di tipo commissariale, affiancato da una struttura tecnica apposita; il controllo politico verrebbe assegnato a un comitato di indirizzo, composto dal presidente del Consiglio, il ministro dell’Economia e quello dello Sviluppo economico, mentre il ministro per gli Affari europei sarebbe il referente unico (figura prevista nelle linee guida della Commissione) a livello europeo per l’attuazione del Piano. Il problema con questa struttura piramidale è che deresponsabilizza i ministeri di spesa nelle cui attività normali rientrano quelle previste dal Pnrr. Se non si occupano della attuazione del Piano, non si capisce bene che cosa dovrebbero fare nei prossimi cinque anni questi ministri. È un aspetto sul quale un maggior coordinamento va trovato.

L’ultima questione – forse quella cruciale – è che il Piano sarà attuato nel prossimo quinquennio, un periodo nel quale ci si può aspettare che l’Italia abbia 3 o 4 governi differenti, probabilmente di orientamento politico diverso. Se non si vuole che tutto venga rimesso in discussione a ogni fibrillazione politica, è necessario che il Pnrr venga discusso – e trovi il massimo consenso – non solo tra le forze politiche, ma anche, più in generale, nella società civile e tra le forze sociali.

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16 commenti

  1. Un piano del genere nel nostro sistema-Paese fa i brividi soltanto a pensarlo. Figuriamoci ad applicarlo.
    Purtroppo conosciamo bene e da molti anni come vengono (non)gestiti i fondi europei e lo spreco di risorse fondamentali per la crescita del Paese.
    Lo scenario che si prospetta nei prossimi anni è indubbiamente cupo; in particolare per la perdita di posti di lavoro già in corso. É su questo punto che si dovrebbe intervenire con programmi ben fatti per formare le persone ai nuovi “bisogni” (lavori) che la tecnologia e l’economia in genere richiederà.
    L’auspicio è che la burocrazia, unitamente a procedure vetuste non facciano naufragare anche questa opportunità per il rilancio della nostra società che mostra ritardi importanti rispetto alle economie dei Paesi UE di riferimento.

    • Jeriko

      Concordo con quanto dice, tranne che per la parte relativa alla formazione delle persone ai nuovi bisogni. Su questo punto c´e´ un grande malinteso in cui si pensa che se il mercato del lavoro cerca, ad esempio, informatici allora e´ sufficiente un corso di tot ore per diventare informatico; stessa cosa per ogni altra professione. Su questa strada si getteranno le basi solo per produzioni di basso livello, dove occorre manovalanza e non competenza.
      Se il mercato richiede professionalita´tecniche di alto livello servono igegneri, fisici, matematici.

      • Henri Schmit

        Condivido queste osservazioni, ma allargo: ingegneri, fisici e matematici ci sono, mai abbastanza. Ma il tassello mancante è la formazione digitiale di tutti gli altri: 1. gli adetti delle PA; la digitalizione è un intervento non solo tecnico ma anche LOGICO che dovrebbe essere l’occasione di un ripensamento delle procedure esistenti, in un’ottica di efficienza, di comprensibilità (Sabino Cassese ha pubblicato osservazioni similari pochi giorni fa in un intervista). 2. i giovani e i disoccupati, per i quali ci dovrebbero essere corsi di formazione +/- gratuiti, ovunque per tutti i livelli; potrebbe essere una condizione per ottenere altri benifici sociali. Rcentemente un Italiano insegnante di informatica è stato premiato in UK come eccellenza mondiale. Perché non partire da un asset umano come questo?

  2. Luigi Bonini

    Tutto interessante, ma come si giustifica la sanità all’ultimo posto?

    • Henri Schmit

      Perché ci sarebbero i 37 miliardi del MES pandemico senza condizioni, con un risparmio sugli interessi rispetto al debito sovrano.

  3. Ezio Pacchiardo

    La gestione e l’utilizzo del Recovery Fund (RF)richiedono capacità e conoscenze non comuni, e nella distinzione dei ministri in carica tra i semplici propagandisti, i politici e gli statisti solo questi ultimi sono i candidabili al ruolo che si prospetta per gestire con competenza il RF. Non a caso il RF è assegnato per generare una nuova Italia, per superare tutte le difficoltà che sino ad ora hanno favorito le spese correnti a svantaggio degli investimenti, situazione che non ha promosso la produttività e che quindi ha mantenuto e cresciuto il debito. Ora tra i ministri in carica pochi a giudicare da ciò che stanno facendo hanno le conoscenze necessarie per il nuovo compito, la scelta quindi di manager provenienti dalle industrie potrebbe risolvere il problema delle conoscenze delle tecnologie e del loro sviluppo. Ma ciò non basta è necessario che gli individui incaricati di tale compito abbiano anche una “visione” del futuro specifico del settore loro assegnato e globale per guidare uno sviluppo armonico e per ciò integrato con gli altri filoni industriali. La combinazione quindi di manager qualificati e statisti è la soluzione che più si adegua all’esigenza di fare bene. Ma forse le 300 persone previste sono eccessive, forse servono solo poche persone qualificate come aiuto ai ministri che dovranno essere responsabili dell’uso delle risorse.

  4. enzo de biasi

    E’ dagli anni ottanta del secolo scorso che il Paese Italia spende poco più poco meno del 40% di quanto viene approvato in sede UE una volta approvati progetti strutturali. Da 40 anni nulla è cambiato, perchè dovrebbe cambiare adesso ? L’Italia, società politica, economica e civile è rimasta la stessa nel suo DNA . Il 2026 l’anno di termine non varrà per noi che -come sempre- chiederemo la proroga. Accanto al numero di esecutivi che si saranno succeduti (3 o 4 come afferma l’autore) l’altro elemento ostativo è la usuale incapacità di gestione accertata ed acclarata a livello centrale e periferico; tuttalpiù ( e con fatica e ritardi) saremmo in grado di osservare i termini d’inzio della presentazione dei progetti esecutivi. Cosi è l’ italia da 40 anni.

    • Maurizio Angelini

      Certo, Enzo De Biasi, c’è da rimpiangere come mai COVID 19 non riesca a fare più di 7-800 morti/die. In Italia neanche i virus funzionano.

      • enzo de biasi

        Niente affatto ! Il Covid 19 ha avuto il merito di mettere a nudo i problemi sottovalutati da decenni, inoltre i ha favorito una maggiore pulizia dell’aria, dell’acqua e dell’ambiente; infine -per gli amanti del teatrino politicante- senza Covid 19 l’attuale esecutivo avrebbe già tirato le cuoia. Cos’altro poteva (può) fare il Covid 19 da solo ? I morti lasciamoli in pace, sta agli Italiani viventi prendersi in mano il loro futuro se lo vorranno; pensando soprattutto a figli e nipoti (next generation). .

  5. Giovanni Matichecchia

    Sarà necessario riformare la macchina amministrativa oggi ancora immano ai potentati e disattenta alle esigenze del Paese.

    • enzo de biasi

      Ecco si, bravo , ottimo, una bella idea soprattutto nuova. Della questione venne incaricata una Commissione parlamentare presieduta dll’On.le Luigi Sturzo, correva l’anno 1953 e .siamo ancora in attesa. Risparmio ai lettori/trici il seguito delle altre commissioni e cosiddette leggi di riforma della P.A. approvate e non applicate , se non per dettagli che interessavano i dipendenti nei successivi 67 anni. Come si sa i dipendenti della PA sono oltre 3.6 milioni e tutti tengono famiglia e come è noto il Paese Italia, non sapendo come risolvere i problemi -di solito- ricorre al voto del popolo. Chi può rinunciare , in partenza, a circa 10 milioni di voti potenziali ?

  6. Maria Deli

    Per attuare qualsiasi programma sarebbe indispensabile togliere alle regioni molte delle competenze che sono state loro assegnate dalla riforma del titolo quinto. Sanità in primis, ma a seguire anche infrastrutture, sviluppo economico, turismo, trasporti, ambiente. Occorrono macro progetti di rilancio in tutti questi ambiti. Le regioni invece pensano solo al consenso nei propri territori e mancano di una visione di insieme, che invece è quella che ora serve all’Italia. Nessuna regione cresce da sola. Accorpiamole e assegniamo loro solo compiti amministrativi. Avremmo sicuramente meno costi per la collettività, meno burocrazia e più efficienza.

  7. Henri Schmit

    Sono abbastanza d’accordo con l’analisi che non dimentica l’aspetto delle riforme strutturali, tallone d’Achille dell’ntero piano. L’idea dell’UE, poi battezzarta NGEu è agli antipodi delle proposte italiane veicolate anche su questo forum dall’articolo di Giavazzi Tabellini 27 marzo, e assomiglia molto al MES ordinario come l’ho fatto notare nel mio commento sotto quel primo articolo e sotto altri. Il punto fondamentale sono le CONDIZIONI fra cui le più importanti non sono le modalità d’uso ma le riforme strutturali, fattore molteplicatore per eccellenza. L’Italia invece di insistere sulla sovranità (limitata per via dell’adesione all’UE e soprattutto euro-sistema) dovrebbe invocare le condizioni europee, condividerle e realizzarle. Senza le riforme strutturali i fondi del PNRR saranno acqua sulla sabbia del deserto.

  8. Ferdinando Boero

    Uno dei pilastri di Next Generation EU è la protezione della biodiversità. La parola non c’è, in questo documento. L’ambiente è solo un fornitore di risorse. Questo piano è stato scritto da economisti, quelli che hanno costruito il sistema “vecchio” e che fanno finta di proporre un sistema “nuovo”, come chiede il new green deal. Chi ha causato i problemi non può essere chiamato a risolverli usando la stessa logica che li ha causati. Nella commissione Colao non c’era un solo esperto di ambiente. E di sicure non ce n’era neppure uno neppure nel gruppo che ha partorito questo documento. Non hanno neppure letto bene le istruzioni: https://ec.europa.eu/info/strategy/recovery-plan-europe_en dove si cita esplicitamente biodiversity protection. Se si risponde ad un bando bisogna riprenderlo punto per punto. Come mai questa totale incompetenza sul capitale naturale?

  9. Ferdinando Boero

    Assieme a fisici ingegneri e matematici non viene in mente a nessuno che ci vogliano anche, ripeto: anche, esperti di ambiente?

  10. Nell’articolo non si fa nessuna menzione del riparto dei 209 mld. La prima bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) aveva assegnato al Sud appena il 30% del totale delle risorse, cioè un livello neppure proporzionale alla popolazione, come avviene (anzi meno) da decenni nell’iniquo e incostituzionale riparto delle risorse fra le tre ripartizioni territoriali dell’Italia: Nord, Centro e Sud. Nell’attuale seconda Bozza (pag. 117), il 30% è diventato 34%, che rappresenta la quota di popolazione del Sud, ma comunque è ben lontano dal 45% della cosiddetta “clausola Ciampi” e ancor di più dal 60% che rappresenta la quota maggioritaria auspicata, anzi prescritta per la quota a fondo perduto dall’Unione Europea per il Mezzogiorno (66%), che sarebbe la misura minima congrua sia per cominciare seriamente a colmare i divari territoriali (obiettivo UE per il Next Generation EU), sia per compensare il Sud dello “scippo” dei fondi ordinari degli ultimi decenni determinato dal riparto iniquo e incostituzionale (art. 119), secondo il prof. Mirabelli, basato sulla spesa storica e contravvenendo a quanto stabilito dalla legge 42 del 2009 (cosiddetta Legge Calderoli sul federalismo fiscale, mai applicata finora). Peraltro, la stessa Bozza attesta che il moltiplicatore del Sud è quasi 5, mentre quello del Nord è inferiore a 1.

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