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TRIONFO DELLA BUROCRAZIA

Per garantire che la compilazione del modulo di dimissioni volontarie sia una libera scelta del lavoratore occorrono sistemi di indagine e strumenti che certifichino la provenienza del documento da chi lo compila. Come la firma digitale o l’intervento di un pubblico ufficiale. Ma il vero deterrente agli abusi nella gestione dei rapporti di lavoro sono i controlli. La vicenda della legge 188/2007 mosta che l’irrigidimento delle norme troppo spesso serve solo a esaltare le capacità elusive.

I SALARI NON SCIVOLANO SULLE TASSE

Si discute molto in Italia di salari bassi e di potere di acquisto che si è ridotto negli ultimi dieci anni. Tutta colpa del cuneo fiscale, si dice. Tuttavia, la differenza tra costo del lavoro e stipendio netto non è imputabile solo alle trattenute fiscali, ma anche ai contributi sociali e previdenziali,  assimilabili a premi assicurativi e a retribuzione differita. Ma il punto fondamentale è che secondo i dati Ocse per i lavoratori dipendenti il cuneo è leggermente calato.

MA IL CUNEO SI E’ RIDOTTO

Secondo il rapporto Ocse, il cuneo fiscale sulle retribuzioni in Italia resta elevato, nonostante i provvedimenti della Finanziaria 2007: i lavoratori medi si classificano al sesto posto se single e al dodicesimo se hanno familiari a carico. Ma l’Ocse non tiene conto dell’intervento sull’Irap. L’effetto congiunto delle variazioni, invece, fa scendere il cuneo di 1,20 punti percentuali per un lavoratore single e di 3,53 punti percentuali per un lavoratore con coniuge e due figli a carico.

SALARI, NON DOVEVA ESSERE LA PRIORITA’?

Il 2008, nelle intenzioni di Prodi, doveva essere l’anno della questione salariale. Priorità numero uno del suo Governo. Poi il suo esecutivo è caduto e, in questa campagna elettorale, i contendenti non fanno che ripetere un clichet vecchio: bisogna abbattere le tasse sul lavoro. Sanno, in cuor loro, che non lo faranno, una volta eletti. A fianco dei tagli alle tasse promettono tante nuove spese.  E senza bloccare la crescita della spesa pubblica non si potranno ridurre in modo significato le tasse sui redditi. Inoltre parte del cosiddetto cuneo fiscale rappresenta contributi previdenziali. Se tagliamo quelli, nel nuovo regime contributivo, condanneremo i lavoratori ad avere domani pensioni più basse. Ma è proprio vero che per avere salari più alti bisogna tagliare le tasse sul lavoro? Se però guardiamo a paesi, come Francia e Germania, dove i salari sono aumentati negli ultimi anni, notiamo che hanno un cuneo fiscale superiore al nostro. In Italia, inoltre, il cuneo si è pur marginalmente ridotto nell’ultima legislatura.  Ma i nostri salari sono rimasti piatti al netto dell’inflazione. Il problema non è tanto il cuneo fiscale, quanto il fatto che in Italia la produttività del lavoro non è cresciuta. E, in un mondo globalizzato, se non aumenta la produttività non è possibile aumentare le retribuzioni. Come dunque aumentare sia salari che produttività? Bisogna legare, azienda per azienda, salari e produttività. Questo incentiverebbe a un miglioramento nella produttività del lavoro. Ma qui devono essere le parti sociali, sindacato, Confindustria, associazioni di categoria, a mettersi d’accordo. Purtroppo non lo stanno facendo Non è quindi solo colpa della politica, ma il continuo rinvio della questione salariale è soprattutto colpa delle parti sociali: le organizzazioni dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro da anni parlano di riformare la contrattazione e da anni continuano a rinviare ogni riforma. Nel frattempo un crescente numero di lavoratori ha un contratto da tempo scaduto.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Prima di tutto ringrazio gli autori dei singoli commenti. Molte delle questioni sollevate sono trattate in dettaglio nel paper completo disponibile dal 28/2/2008 su http://www.isfol/Studi_Isfol, tuttavia alcune sollecitazioni meritano almeno un accenno di risposta.
I dati citati durante la trasmissione “Ballarò” non tornano neanche a me. Il panel PLUS, su 24.000 interviste, di cui a breve avrete una sintesi su questo sito, indica che in 12 mesi (tra la metà del 2005 e  la metà del 2006) il 58 % degli atipici permane nella condizione di atipico (inteso come OSA123) e il 42% transita verso un lavoro stabile (c.d. esiti positivi). Tuttavia il lasso di tempo in cui l’esito avviene  è assai rilevante, infatti una cosa è impiegarci 5 mesi o 5 anni e altra cosa ancora  è dire che chi entra nel mercato del lavoro con un contratto flessibile prima o poi diventerà un occupato stabile.
Nell’articolo sono state presentata tutte, o quasi, le segmentazioni del mercato del lavoro attuale proprio per la presenza di letture diverse dei medesimi fenomeni, che possono essere – ribadisco- simultaneamente corrette. Come ho tentato di chiarire, finché non si convergerà su definizioni condivise (e sarà un processo lungo) e si utilizzerà indifferentemente ogni tipo di informazione, tutti potranno interpretare i dati come vogliono: si potrà citare ora dati della statistica ufficiale ora altri dati; riferirsi a dati di stock e poi a dati di flusso, contemplare o meno singole voci contrattuali, ecc. Proprio il disordine dell’attuale mercato del lavoro si presta a molteplici interpretazioni, alcune, semmai, più maliziose o provocatorie di altre.
I dati Isfol PLUS sono sostanzialmente allineati ai dati ISTAT RCFL per i totali occupati di-pendenti e autonomi mentre divergono, ovviamente, per le loro composizioni. Tuttavia il dato comparato dei fixed term contract è costituito solo dalla parte atipica del lavoro dipendente, invece dovrebbe comprendere anche la – non trascurabile – quota atipica  nel lavoro autonomo (i c.d. parasubordinati).
A proposito del lavoro nero non è stimabile, a mio avviso, con rilevazioni campionarie di questo tipo. Infine i redditi: molto si può dire sulla natura dell’occupazione e sul reale status di un occupato relativamente alla sua remunerazione. E’ del tutto evidente che, sebbene statisticamente una persona possa (o meglio debba, poiché  gli Istituti di Statistica Nazionale recepiscono i regolamenti Eurostat) essere considerato occupato  potrebbe avere una remunerazione tale da non renderlo un soggetto economicamente indipendente e come tale risultare formalmente ma non sostanzialmente occupato. Ciò introduce un ulteriore livello di soggettività nella stima degli aggre-gati, a dimostrazione di come si sia ancora lontani da definizioni condivise sull’occupazione atipica.

IL PREMIO SALARIALE A DUE LIVELLI

Confindustria e sindacati hanno deciso di rinviare di nuovo la discussione sul modello di determinazione dei salari. E’ un’altra occasione persa. A dispetto dei tanti richiami alla inderogabilità della questione salariale. Permettere a tutti i lavoratori di avere un contratto, alleggerendo al tempo stesso la struttura a più livelli della contrattazione, e rafforzare il legame fra salari e produttività sono gli obiettivi primari della riforma di un sistema che ha ormai mostrato tutti i suoi limiti. Ecco una proposta dai semplici principi e con un “premio a due livelli”.

COME RIFORMARE IL CONTRATTO DI LAVORO

La base di partenza della discussione fra parti sociali sulla riforma della struttura della contrattazione collettiva sorvola su due questioni centrali. La prima riguarda le clausole di rinvio del Ccnl al contratto di secondo livello: andrebbe adottato il principio per cui tutto ciò che non è espressamente devoluto al livello nazionale, ricade nella sfera di agibilità del contratto aziendale. La seconda verte sull’efficacia soggettiva del contratto collettivo nel settore privato, che richiederebbe un intervento legislativo e alcuni correttivi.

QUANTI SONO I LAVORATORI ATIPICI *

Nel 2006 quasi 3,5 milioni di individui, il 15,3 per cento dell’occupazione, erano coinvolti in forme di lavoro atipiche, considerando i dipendenti a termine e i finti collaboratori. Identificare la reale natura della prestazione lavorativa è sempre più necessario in virtù delle dinamiche dell’occupazione nel nostro mercato del lavoro che rendono spesso gli indicatori ordinari di occupazione e disoccupazione insufficienti a valutarne tutta la complessità. Solo così si potrà dare un giudizio obiettivo sull’introduzione delle forme di lavoro flessibili.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Nel mio intervento sul tema della precarietà sostenevo tre punti:

1. la rigida tutela del lavoratore fornita dalle regole vigenti negli anni ’70 ha assecondato una visione del rapporto di lavoro come centro o sede di esclusivi conflitti di interesse;
2. le modifiche di quel quadro normativo, dagli anni ’80 ad oggi, non sono state guidate dall’obiettivo di un corpo coeso di regole attorno a una visione meno semplicistica e radicale del rapporto di lavoro. Il percorso di revisione fino ad oggi compiuto, per quanto profondo, non è mai approdato a una diversa ispirazione del quadro normativo. Non è mai approdato a un principio di efficienza del mercato a cui legare le regole, o a un principio di tutela del lavoro tramite l’efficienza del mercato del lavoro. La creazione di flessibilità attraverso una revisione molto frammentata delle regole ha prodotto una artificiosa segmentazione del mercato del lavoro e una iniqua stratificazione di tutele.
3. Il raggiungimento di un corpo coeso di regole – fondato su principi di efficienza e di equità e su una visione del rapporto di lavoro che riconosca aree di interesse comune a impresa e lavoratore – richiede che si affronti esplicitamente anche il tema dei licenziamenti individuali.

In modo alquanto diverso, i commenti a questo intervento sono tutti significativi. Alcuni fanno riferimento al modello danese, per negarne l’applicabilità all’Italia a motivo della insostenibilità finanziaria di adeguati ammortizzatori sociali o per sollecitare un uso più efficiente e rigoroso della spesa sociale. Si tratta di argomenti seri. Personalmente sono più sensibile al secondo che al primo, ma temo che entrambi spostino un po’ il focus del mio argomento: il problema degli ammortizzatori sociali rende forse meno utile fare chiarezza sulle distorsioni delle attuali regole del mercato del lavoro e sull’esigenza di porre in discussione alcuni principi generali a cui esse queste regole restano comunque legate?
La debolezza degli ammortizzatori e il timore di una revisione dell’art. 18 fanno temere, in altri commenti, una “riduzione delle tutele” e una conseguente “generale precarizzazione del mercato del lavoro”. Rimango perplessa davanti a questi commenti.  La precarizzazione del mercato del lavoro c’è già, con il suo pesante carico di iniquità e ingiustizia sociale.  Il richiamo a un principio di efficienza del mercato è esattamente l’indicazione di una via più efficace per combattere la precarizzazione. Per quanto riguarda l’art. 18 poi, è fin troppo ovvio che l’efficienza del mercato non passa solo per la sua correzione, ma questa correzione è un passo ineludibile se si vuole davvero fare i conti con la complessità del rapporto di lavoro.
In un commento si parla anche di “presunte ‘efficienze’ di presunti ‘mercati’ del lavoro” e non si ritiene che possa esser messa in discussione la visione del rapporto di lavoro come centro o sede di esclusivi conflitti di interesse. Sorvolando sul presunto mercato, sottolineerei a questo lettore che una visione esclusivamente conflittuale è giustificata solo nell’ipotesi di livelli di produzione dati e di tecniche date, un contesto a cui fortunatamente non siamo ancora arrivati. Temo, però, che in questa semplificazione il lettore sia in folta compagnia.
Condivido totalmente, infine, il commento, amaro, di una lettrice che “opera nel settore del lavoro dipendente”. C’è oggi un rischio nel nostro mercato del lavoro: l’abuso delle tutele da parte del lavoratore e l’abuso di tutti i possibili margini di flessibilità da parte delle imprese può innescare una sorta di gioco perverso che può finire col danneggiare tutti. In che misura il tessuto produttivo del paese sta correndo questo rischio? Scongiurarlo, portando efficienza, semplificazione e coerenza nelle regole, dovrebbe essere un impegno prioritario dei nostri governanti.

IL VERO NODO DELLA PRECARIETÀ

Il dibattito sulla precarietà non ha messo in discussione la visione del rapporto di lavoro come centro di esclusivi conflitti di interesse. Né ha favorito l’identificazione di un quadro unitario di tutele o l’ispirazione di un principio di efficienza del mercato cui le norme potessero dare applicazione. Utili un congruo periodo di prova e una drastica semplificazione dei contratti. Ma la patologica segmentazione del mercato del lavoro richiede un processo di revisione delle regole più ampio. Che affronti anche il tema dei licenziamenti individuali.

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