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IDENTIKIT DEL LAUREATO-INSEGNANTE

Lungi dall’essere un corpo omogeneo, l’universo degli insegnanti è al suo interno molto differenziato. Significative le differenze nei meccanismi e nei fattori di selezione e autoselezione in entrata dei laureati-insegnanti. Ciò riflette differenti motivazioni culturali, ma anche la presenza di asimmetrie nelle opportunità occupazionali e professionali, effettive o percepite. L’unico elemento comune a tutti sembra essere l’elevata quota e la lunga durata della condizione di precarietà. I risultati di una indagine della Fondazione Agnelli su dati Almalaurea.

IL SUSSIDIO “LASCIA E RADDOPPIA”

Il governo annuncia l’intenzione di raddoppiare l’indennità ai co.co.pro che restano senza lavoro. Per non lasciare indietro nessuno, dichiarano i ministri. E in particolare i precari, che non hanno diritto ad alcun sussidio di disoccupazione. Ma le cose non stanno esattamente così: i collaboratori restano ancora senza tutele mentre raddoppia una misura che riguarderà solo un numero esiguo di lavoratori. D’altra parte, le tante proposte di riforma del sistema restano inascoltate, perché l’esecutivo è convinto che i nostri ammortizzatori funzionino già benissimo.

UGUALI DI FRONTE ALLA PENSIONE

Il ministero per la Pubblica amministrazione ha elaborato una proposta di riforma che innalza gradualmente l’età pensionabile delle lavoratrici del settore pubblico da 60 a 65 anni. Con un possibile risparmio totale di circa un miliardo, secondo le nostre stime. Dal 2010 al 2014 il blocco delle uscite riduce notevolmente la spesa pensionistica rispetto allo status quo. Dal 2015 il risparmio rallenta, per l’aumento delle prestazioni dovuto al prolungamento dell’attività lavorativa di tre o quattro anni.

IL COMMENTO ALL’ARTICOLO DI BOERI E GARIBALDI

La proposta di Boeri e Garibaldi ritorna sull’importante questione del “sussidio unico di disoccupazione”.
Sarebbe opportuno che gli autori precisassero alcuni nodi e risolvessero alcune difficoltà sulle quali si rischia di sorvolare troppo velocemente. (1) Giustamente, del resto, Boeri e Garibaldi sostengono che non ha senso parlare dei costi e dei finanziamenti se prima non si chiariscono condizioni di accesso, livello e durata del sussidio di disoccupazione.
Una prima questione concerne la platea ammessa al sussidio. Nella proposta di Boeri e Garibaldi il sussidio verrebbe garantito a “tutti i disoccupati”, con esclusione di quanti sono in cerca di prima occupazione. È infatti la stima è condotta su un totale di disoccupati (di fonte Istat), al netto dei giovani in cerca di prima occupazione, pari a 1,740 milioni, muovendo da una stima di tasso di disoccupazione all’8%. Ma in tale ammontare sono incluse alcune categorie per le quali non è semplice ipotizzare l’accesso al sussidio:

  1. coloro che sono usciti dal lavoro autonomo (anche Boeri e Garibaldi sembrano escluderli dal sussidio unico di disoccupazione, ma la scelta non è nitida);
  2. coloro che si dimettono, escono cioè volontariamente da un’occupazione dipendente. Le dimissioni volontarie valgono circa un terzo del totale delle cessazioni (1). Si propone di ritornare alla situazione ante-1997, prima della legge Treu che escluse i dimessi dall’accesso al sussidio ordinario di disoccupazione?
  3. coloro che rientrano nel mercato del lavoro dopo un periodo, anche lungo, di inattività. Queste persone non sono in cerca di prima occupazione, ma sono “nuovi disoccupati”. Si prevede un sussidio anche per costoro? Non è semplice ipotizzarlo;
  4. i disoccupati di lunga durata, sopra i 24 mesi. Per questi, in verità, anche Boeri e Garibaldi rinviano a strumenti diversi dal sussidio di disoccupazione, quale un reddito di ultima istanza (del quale non si prospettano stime né di beneficiari né di costi).

EÂ’ evidente che, depurato da queste componenti, lo stock di disoccupati si ridurrebbe significativamente.
In altre parole, occorre precisare se si propone un sussidio per tutti coloro che puntualmente – per semplificare le cose, diciamo al primo giorno di ogni mese – risultano alla ricerca di occupazione (proposta di difficilissima realizzabilità) oppure, più parcamente e più realisticamente, si propone un sussidio per quella frazione di disoccupati costituita da quanti hanno involontariamente e recentemente perso un posto di lavoro o concluso un rapporto di lavoro a termine (tra questi ultimi possono essere inclusi i lavoratori parasubordinati: ma non ci si devono nascondere le numerose difficoltà operative nel definire per essi un sussidio “congruo”, vale a dire simile a quello dei lavoratori dipendenti).
Una seconda questione riguarda la relazione tra durata del sussidio e durata del periodo precedentemente lavorato. Si possono “rilassare” gli attuali requisiti richiesti per lÂ’accesso alla disoccupazione ordinaria (un anno di contribuzione e due anni di assicurazione). In presenza di un mercato del lavoro in cui i periodi di occupazione “brevi” sono diventati una frazione considerevole, ciò è del tutto ragionevole. Ma fino a che punto tali requisiti possono essere rilassati? O meglio, si pensa di togliere ogni connessione fra durata del periodo precedentemente lavorato, anche in modo non continuativo – cioè sommando una serie di episodi di occupazione “brevi” e interrotti – e durata del sussidio? Basta una settimana di lavoro per avere diritto ad un sussidio della durata proposta da Boeri e Garibaldi (24 mesi)? Se non è così (ed è difficile che sia così), è evidente che si può sì muovere verso un “sussidio unico”, nel senso che è disegnato secondo una logica unitaria, ma avendo ben presente che se ne dovranno articolare durata, progressiva contrazione, ecc., avanzando una proposta che si faccia carico di tale articolazione. Certo, razionalizzare si può e si deve, e molto, per migliorare la “balcanizzata” situazione esistente, frutto di note stratificazioni successive. In questÂ’ottica appare difficile disegnare alternative razionali se non si mette in gioco il superamento della disoccupazione a requisiti ridotti che, così com’è, è tuttÂ’altra cosa rispetto ad un sussidio di disoccupazione.
Una terza questione, infine, è relativa alla stima dei costi. Nel 2007 il sistema esistente (indennità di mobilità + disoccupazione ordinaria a requisiti pieni e ridotti, inclusa l’agricoltura) ha indennizzato circa 600.000 anni/uomo con un costo attorno agli 8 miliardi. Se ci aggiungiamo anche la cassa integrazione straordinaria arriviamo a circa 9 miliardi per 700.000 anni/uomo. È perlomeno problematico pensare che con 15,6 miliardi si possa coprire una durata media di 12 mesi di disoccupazione per 1,740 ml. di disoccupati, se non riducendo fortemente, rispetto alle regole attuali, il tasso medio di sostituzione. Ma questa non è certamente l’intenzione degli autori.
Un volta buttato il sasso nello stagno, è il caso di porre mano a ipotesi circostanziate.

 

(1)   Su queste questioni ci si è soffermati in Anastasia B., M. Mancini e U.Trivellato, Il sostegno al reddito dei disoccupati: note sullo stato dell’arte. Tra riformismo strisciante, inerzie dell’impianto categoriale e incerti orizzonti di flexicurity, contributo ai lavori del Comitato tecnico-scientifico dell’iniziativa interistituzionale Camera dei Deputati-Senato-Cnel  su “Il lavoro che cambia” (Commissione Carniti), in www.cnel.it.
(2)   Cfr. Veneto Lavoro, Lavoratori dipendenti con contratti a termine e indennità di disoccupazione: analisi della copertura e simulazioni su possibili allargamenti, Misure, n. 18 (www.venetolavoro.it).

LA RISPOSTA DEGLI AUTORI

Ringraziamo molto Anastasia e Trivellato per il loro commento alla nostra proposta e i tanti lettori per i loro incoraggiamenti e anche osservazioni critiche. Lo scopo del nostro articolo era proporre dei costi di base per un sussidio universale ai disoccupati. Riteniamo che sia utile, a questo stadio, avere stime un pò più precise su quello che potrebbe costare un sussidio unico. Una volta accettato il concetto, sarà importante e doveroso entrare in maggiori dettagli, e il commento di Anastasia e Trivellato va esattamente in quella direzione.
Con riferimento alla platea degli ammessi al sussidio, le stime del nostro articolo si riferiscono effettivamente a un sussidio da erogare a tutti i disoccupati con eccezione dei giovani disoccupati senza alcuna esperienza. Tra le eccezioni e le esclusioni previste da Anastasia e Trivellato, riteniamo che la più importante sia quella relativa ai disoccupati che precedentemente erano fuori dalla forza lavoro. Viceversa, sulla differenze tra cessazioni volontarie  e involontarie preferiremmo procedere con grande cautela, anche perché la distinzione tra le due è una delle più difficili questioni in economia del lavoro (quando si tratta davvero di dimissioni spontanee e quando invece di dimissioni spontanee?). Normalmente questo problema lo si affronta introducendo un periodo di attesa, prima della fruizione del sussidio, per chi formalmente ha volontariamente lasciato un’azienda.
Con riferimento alla relazione tra durata del sussidio e periodo contributivo, nel nostro calcolo di base non abbiamo inserito alcuna durata minima. Siamo d’accordo che si dovrebbe operativamente ipotizzare un periodo contributivo minimo, che riteniamo possa essere di sei mesi lavorativi nell’ultimo anno, in modo da evitare l’accesso al sussidio per il lavoro strettamente stagionale. 
Con riferimento alla stima dei costi, siamo effettivamente convinti che i 15,6 miliardi di stima ipotizzati nel nostro articolo siano ragionevoli. Come abbiamo indicato nellÂ’articolo, abbiamo utilizzato una retribuzione media per i dipendenti a tempo indeterminato pari a 22.000 euro, pari a 18.000 euro per i lavoratori a tempo determinato e pari a 8.000 euro per i lavoratori precari. Nelle nostre stime il sussidio medio pagato a queste tre categorie sarà pari a 716 euro mensili, ottenuto da una media ponderata (dai flussi in ingresso medi nel periodo 2003-7) di un sussidio di 1.000 euro per i lavoratori a tempo indeterminato, di 800 euro per i lavoratori temporanei e di 500 euro per i precari. Tra lÂ’altro, i nostri 15,6 miliardi sono il doppio dei costi attuali a cui fanno riferimento Anastasia e Trivellato. Non deve perciò sorprendere che, nonostante la platea aumenti da 600 mila attuali a 1,8 milioni circa, il costo totale raddoppi. Basta ad esempio ricordare che la probabilità che un lavoratore a tempo indeterminato perda il lavoro è di circa lÂ’1 per cento, mentre per un precario è del 15 per cento e – come ricordiamo sopra – la retribuzione di un precario è circa un terzo rispetto al lavoratore a tempo indeterminato.

MA QUANTO COSTA IL SUSSIDIO UNICO DI DISOCCUPAZIONE?

Secondo le nostre stime, un sussidio unico garantito a tutti i disoccupati, indipendentemente dal tipo di contratto, assicurando in partenza il 65 per cento della retribuzione precedente e non meno di 500 euro al mese costerebbe a regime circa 15,5 miliardi. Sostituirebbe però indennità di mobilità, sussidi di disoccupazione ordinari e a requisiti ridotti e gestioni speciali per edilizia e agricoltura che ammontano in media a 7,5 miliardi all’anno. Potrebbe essere interamente finanziato con un contributo di circa il 3 per cento delle retribuzioni. Anche se nella fase di transizione alcuni costi dovrebbero essere coperti dal bilancio dello Stato.

L’ACCORDO SEPARATO DEL 22 GENNAIO 2009: QUALI ULTERIORI PROVE DI DIALOGO?

L’accordo recentemente siglato da tutte le confederazioni sindacali e imprenditoriali, a eccezione della Cgil, con una presenza del Governo più in veste di datore di lavoro pubblico che non di soggetto dispensatore di risorse normative e finanziarie, è stato giustamente definito “di portata storica”, perché innesta numerosi germi concertativi e cooperativi al sistema di relazioni industriali del nostro paese, ciò che in Italia costituisce una novità assai rilevante. La questione è se l’innovazione si rivelerà soltanto tentata o anche effettiva.
Vi è un punto su cui la cesura rispetto al passato è drastica al punto da essere indigeribile per la Cgil: la derogabilità in peius dei contratti nazionali da parte dei livelli inferiori. La giurisprudenza in verità ha ammesso il principio della derogabilità in peius del contratto collettivo nazionale a opera del contratto aziendale per il prevalere del criterio cronologico su quello gerarchico, anche con riguardo a materie non devolute alla competenza contrattuale decentrata (Cass. 18/6/2003, n. 9784); nel contempo però ha sempre e costantemente affermato la natura privatistica e non istituzionale della rappresentanza negoziale, per cui deve essere salvaguardata la libertà di adesione sindacale individuale sancita nell’art. 39, c. 1, della Costituzione e, di conseguenza, salvo diverse e specifiche previsioni legislative (da ultimo v. art. 5, c. 4-bis, d.lgs. n. 368/2001), deve ammettersi la possibilità di manifestare un dissenso esplicito sull’accordo da parte dei singoli lavoratori, e non solo di quelli iscritti ad altri sindacati o non iscritti ad alcun sindacato, ma anche di quelli iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti (Cass. 28/5/2004, n. 10353). Sicché l’”effetto utile”, sotto il profilo del migliore aggancio delle previsioni contrattuali alle reali dinamiche produttive e di sviluppo dell’impresa di riferimento, potrebbe essere ampiamente frustrato dall’esercizio individuale della facoltà di dissenso.
La previsione dell’accordo separato interconfederale sembra, su questo versante, non apportare nulla di nuovo all’attuale quadro giudico. Tanto rumore per nulla? No, non è così, il clamore è giustificato dal fatto che comunque esistono vincoli endoassociativi sindacali che sono serviti a scongiurare conflitti fra i diversi livelli e sovvertimenti degli assetti regolativi dati dal protocollo sociale del luglio 1993 e che rimane radicata l’idea per cui il contratto nazionale mantiene la funzione di definire gli standard minimali e inderogabili del lavoro. Per cui l’affermazione esplicita secondo cui al livello aziendale tutto può essere consentito, si appalesa difficile da accettare, sia perché intacca il principio di non duplicità di intervento regolativo sulle stesse materie, sia perché svincola tale effetto da qualunque filtro o soglia di rappresentatività minimale, di fatto legittimando accordi sindacali aziendali derogatori, sottoscritti anche da sigle sindacali minoritarie in azienda o aderenti ad organizzazioni non comparativamente più rappresentative nella categoria di riferimento. Né può dirsi che tale derogabilità in peius sia stata circoscritta alle sole ipotesi di grave difficoltà finanziaria o produttiva dell’impresa, poiché, a tali causali, si sono aggiunte lo «sviluppo economico e occupazionale», e dunque si è aperto ad ogni possibile condizione gestionale, organizzativa e patrimoniale.
Comprese le ragioni di ostilità della Cgil rispetto al testo proposto, ma parimenti comprese e condivise le contrapposte esigenze ad una valorizzazione della produttività aziendale, al più stretto collegamento tra performance aziendali e livello delle retribuzioni garantite ai dipendenti, alla necessità di dare maggiore flessibilità alle imprese in funzione degli effettivi andamenti gestionali registrati, forse alcuni spazi ulteriori di mediazione ci sono e si potrebbe ancora tentare di «ricucire». D’altronde, rivedere le regole della contrattazione collettiva, della rappresentatività sindacale, degli incentivi alla qualità ed al miglioramento di prodotti e servizi, senza la diretta partecipazione del maggiore sindacato in Italia, rischia di generare un innalzamento vertiginoso delle tensioni sociali ed un acuirsi dei conflitti giuridici, legati al permanere di due contemporanei sistemi di relazioni industriali, uno fondato ancora sull’accordo del 1993, l’altro imperniato sull’accordo del 2009. Che cosa si potrebbe allora fare per dare maggiore fiato, spinta, capacità flessibilizzante al contratto di secondo livello, senza peraltro rinunciare al riparto di competenze ed abdicare alla funzione inderogabile e distributiva del contratto nazionale?
La risposta ci sembra univoca. Fermi restando tutti gli altri punti qualificanti dell’intesa, il delicato nodo dei rapporti fra contratti di differente livello si potrebbe sciogliere attraverso un alleggerimento dei contenuti del contratto nazionale, in modo da preservarne la funzione inderogabile minimale senza pesanti ipoteche sugli esiti (anche flessibilizzanti) della contrattazione integrativa, da cui discenda una riallocazione delle materie verso il basso, pur secondo direttrici prefissate a livello centrale (confederale o nazionale). Con un siffatto spostamento in periferia del baricentro regolativo si offrirebbero maggiori chance di esplicazione al contratto aziendale, mantenendo fermo peraltro un riparto di competenza precostituito e non oggetto di continue revisioni ed aggiustamenti in corso d’opera, fonte oltre tutto di possibili fenomeni di dumping sociale (per una più ampia articolazione, v. Pizzoferrato, Il contratto collettivo di secondo livello come espressione di una cultura cooperativa e partecipativa, in Riv. it. dir. lav., 2006, I, p. 434 ss.).
Ci sembra infatti di molta minore consistenza l’altra critica avanzata al testo dalla Cgil, in relazione alla prefigurazione di un modello che non dia sufficiente tutela del salario. A parte il fatto che le opinioni sono divergenti in ordine al livello di rivalutazioni prodotte dal IPCA (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia), comparate al tasso di inflazione programmata, resta comunque che l’allineamento all’inflazione reale deve avvenire nel corso di validità del contratto; che viene riconfermato un meccanismo di copertura economica tra la scadenza di un contratto nazionale e la stipula del rinnovo; e che viene previsto un elemento economico di garanzia già nel contratto nazionale, a compensazione della carenza di contrattazione sul premio di risultato per situazioni di difficoltà finanziaria e produttiva.
Insomma, l’impressione è che l’accordo del 22 gennaio 2009 sia estremamente utile ed opportuno, soprattutto nella parte relativa al rilancio della produttività ed alla sua diretta connessione con le dinamiche retributive, con conseguente valorizzazione regolativa del contratto aziendale; ci sembra anche che le sue previsioni possano essere in massima parte condivise anche dalla stessa Cgil; il vero problema è rappresentato, a nostro avviso, dalla derogabilità in peius dei contratti nazionali a opera dei contratti di secondo livello, ma anche su questo terreno potrebbero ricercarsi soluzioni condivise che non affievoliscano la carica innovativa dell’accordo ma nello stesso tempo non intacchino un principio così diffuso nel mondo del lavoro, o attraverso un sistema di robusti filtri che diano garanzie di effettivo consenso a livello aziendale o attraverso un ridisegno, come detto, a monte delle funzioni regolative fra livelli, con sottrazione di competenze alla sede nazionale. D’altronde non si vede come possa prospettarsi una riforma della struttura contrattuale senza una parte importante del sindacalismo confederale: il rischio è quello di ulteriori lacerazioni sociali e di un’esplosione della vertenzialità giudiziaria con ricadute negative sulla competitività delle imprese e sui livelli occupazionali. Le forme ed i modi di una ricomposizione del quadro sindacale non mancano alla luce del percorso di riforma in esame, la cui operatività, secondo quanto stabilito dal par. 2, è posticipata alla definizione di ulteriori accordi interconfederali specificativi e attuativi, ancora tutti da costruire e sperimentare.
Rimane poi, decisivo, in primo piano, il tema della riduzione della pressione fiscale e contributiva sul lavoro, che ha raggiunto ormai livelli insostenibili per il sistema economico italiano e che non è più sopportata dalla coscienza sociale della maggioranza dei cittadin: dall’unanimità e trasversalità dei consensi, si deve passare ad una inequivocabile, perché piena e strutturale, implementazione fattuale, in carenza della quale ogni sforzo sul versante contrattuale si rivelerebbe vano.

Nota In senso contrario, paventano un eccessivo costo a carico dei contribuenti dato dal minore gettito allÂ’erario, Boeri-Garibaldi;
per una condivisibile critica di tale posizione, Il commento di Giorgio Santini.

REGIONI IN CONFLITTO PER I FONDI EUROPEI

Le regioni contribuiranno a costruire una rete di protezione per i disoccupati privi di ammortizzatori sociali. Utilizzando le loro dotazioni del Fondo Sociale Europeo. Ma le regioni del Sud – più povere – dispongono di una quota del Fondo superiore a quelle del Centro-Nord, mentre queste ultime hanno più disoccupati. Trasferire i fondi dal Sud al Centro-Nord? Sarebbe possibile, ma il Governo ha scelto una strada diversa, che lascia inutilizzata per questo scopo una parte delle risorse europee e accolla un onere allo Stato.

LE TASSE E QUEL REDDITO SEMPRE PIU’ DISEGUALE

La Cgil ha proposto un’imposta di solidarietà: un aumento di aliquota dal 43 al 48 per cento sui redditi superiori ai 150mila euro. L’extra-gettito servirebbe a finanziare interventi in favore di disoccupati e precari. Misure simili sono già state adottate nel Regno Unito e Stati Uniti. Tuttavia, nel nostro paese non è probabilmente la risposta più appropriata alla crescita delle disuguaglianze perché toccherebbe di fatto solo il lavoro dipendente, senza incidere sull’evasione fiscale. Ma è ora che il problema della distribuzione del reddito torni in primo piano.

IL COMMENTO DI GIORGIO SANTINI *

Le argomentazioni di Boeri/Garibaldi nellÂ’articolo Come cambia la contrattazione su lavoce.info rendono necessaria una risposta sui tre aspetti dellÂ’accordo del 22 gennaio scorso che vengono maggiormente criticati.

  1. NellÂ’articolo si sostiene che con il nuovo accordo i lavoratori avranno una copertura contro lÂ’inflazione inferiore rispetto al precedente modello.

Le motivazioni addotte appaiono per la verità abbastanza confuse e fanno riferimento a fattori molto diversi quali la riduzione generalizzata di almeno il 5% della base di calcolo e una ventilata ipotesi che “tutta la retribuzione di fatto” dovrebbe essere coperta dall’inflazione. La prima asserzione è sicuramente esagerata e fortemente pessimistica, poiché base di calcolo per i futuri aumenti contrattuali, risulterà dall’applicazione dell’accordo per alcuni settori migliorativa dell’attuale, per altri neutra, per alcuni  contratti (6) si continuerà con la base di calcolo già fissata da anni  nei CCNL.

La seconda tesi è particolarmente originale perché finora nessun contratto in nessun momento della pur lunga storia contrattuale italiana ha mai previsto una copertura dall’inflazione di tutta la retribuzione di fatto. Per la verità né la piattaforma CGIL CISL UIL su cui è avvenuto il negoziato né nessun soggetto presente al tavolo ha mai sollevato un problema simile. Noi possiamo sostenere con documentazione ufficiale che il nuovo indicatore di inflazione (IPCA depurata dall’energia) se fosse stato applicato negli ultimi 11 anni avrebbe garantito una copertura del tutto analoga (anzi leggermente superiore) all’indice ISTAT Famiglie Operai Impiegati (FOI), che, vogliamo ricordarlo era l’indice non per rinnovare i contratti (che avevano come parametro il Tasso di Inflazione Programmata), bensì per effettuare nel biennio contrattuale successivo i conguagli, tra l’altro con la depurazione delle ragioni di scambio.

Quindi possiamo dire senza ombra di possibile smentita che il nuovo indicatore IPCA se applicato negli ultimi 11 anni avrebbe garantito una piena copertura dellÂ’inflazione reale rilevata ex-post dallÂ’ISTAT.

Era esattamente la richiesta della piattaforma sindacale CGIL-CISL-UIL e ha trovato piena attuazione nell’intesa. Per il futuro, il nuovo indicatore sarà sicuramente migliorativo rispetto al parametro dell’inflazione programmata che in mancanza d’accordo resterebbe ancora il riferimento per rinnovare i CCNL.

  1. NellÂ’articolo viene criticata molto duramente lÂ’incentivazione mediante la detassazione e la decontribuzione, del secondo livello di contrattazione, adducendo lÂ’eccessivo costo a carico dei contribuenti.

Contemporaneamente si sostiene anche che con l’accordo non c’è nessuna sicurezza che avvenga l’estensione della contrattazione di secondo livello, dando a questa considerazione una connotazione molto negativa. Si può, quindi, presumere che anche gli autori pensino che sarebbe utile una maggiore diffusione della contrattazione di secondo livello.

E’ di tutta evidenza che proprio la consapevolezza della difficoltà di estensione della contrattazione aziendale (o territoriale) e contemporaneamente la comune valutazione della sua necessità per dare una spinta propulsiva alla produttività e alla competitività delle aziende, hanno spinto le parti a chiedere che venissero resi strutturali gli incentivi che riguardano sia le imprese (la decontribuzione) sia i lavoratori (principalmente la detassazione). Ora se l’obiettivo di sviluppare la contrattazione aziendale dei salari di produttività è ritenuto valido e necessario per il miglioramento del sistema, perché mai una incentivazione fiscale e contributiva dovrebbe essere talmente negativa, da essere così brutalmente stroncata?

Davvero non se ne vede la ragione. Tanto più che non vengono detassati salari tout court ma quella parte del salario legata alla produttività e ai risultati quindi per definizione la parte più economicamente fondata e sicuramente non inflazionistica.

  1. Si sostiene, infine, che non vanno confuse nella contrattazione collettiva la copertura contro l’inflazione con la ricerca di un legame più stretto fra salario e produttività, perché sono due problemi diversi che vanno affrontati con strumenti diversi. E lo si dice lasciando intendere che invece l’accordo contenga questa confusione.

Ora, tralasciando la considerazione che la proposta alternativa formulata dagli autori appare inestricabilmente intrecciata tra copertura dell’inflazione e retribuzione della produttività tutta in capo al Contratto Nazionale, configurando così un formidabile ritorno all’antico; se c’è una cosa chiara nella riforma è proprio quella che Boeri e Garibaldi  auspicano e cioè la separazione della dinamica retributiva legata alla copertura dell’inflazione, che è in capo al CCNL, dalla dinamica retributiva legata alla produttività che è in capo alla contrattazione di secondo livello. Si tratta di due strumenti diversi, esercitati da soggetti diversi, in luoghi diversi e in tempi diversi. E’ difficile pensare a qualcosa di più separato.
E’ una formula che ha il pregio della chiarezza e della semplicità ma soprattutto è una rivoluzione culturale in senso partecipativo delle relazioni sindacali nel nostro paese, fatto che da più parti e da molto tempo è stato sollecitato e che ora che si realizza viene poco valorizzato.
E’ ora importante che il sindacato si senta particolarmente impegnato a vincere questa sfida sul campo, individuando tutti quei percorsi negoziali che permettono un’effettività della contrattazione di secondo livello, aziendale o territoriale, collegata alla competitività e al buon andamento delle aziende, delle pubbliche amministrazioni, dei servizi, del terziario. In questo modo il lavoro può dare un grande contributo alla modernizzazione del nostro paese, così necessaria, anche per uscire in positivo da questadifficilissima fase di crisi economica.

* Segretario Confederale CISL

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