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La parola ai numeri: prodotto interno lordo

 

Aggiorniamo il grafico dell’andamento del Prodotto interno lordo includendo le stime preliminari Istat relative al terzo trimestre. Scopo della rubrica è confrontare il livello attuale del Pil con quello prima della crisi. Il grafico mostra i dati, ripresi dal sito Istat, relativi al livello del Pil trimestrale a valori concatenati (ossia depurati dall’Â’inflazione) e destagionalizzati (depurati per l’Â’effetto di calendario).
La crescita pressoché nulla del terzo trimestre fa sì che siamo ancora lontani dai livelli precendeti alla crisi. Ancora più preoccupante pensare che tra i paesi avanzati siamo quello che ha subito il calo maggiore durante la crisi e che, ad eccezione della Spagna, siamo il paese che è cresciuto meno nel periodo successivo “Giusto segnalare come, a volte, anche l’Istat presenta grafici che potrebbero indurre il lettore meno esperto in errore.

Il grafico qui sopra, che compare nella prima pagina del comunicato, riporta i tassi di crescita tendenziali del Pil. Un lettore disattento potrebbe trarre la conclusione che “le cose sono ritornate come prima” invece così non è come mostra il nostro grafico che poi è lo stesso (con intervalli di tempo diversi) di pagina 2 dello stesso Comunicato.

a cura di Davide Baldi e Ludovico Poggi

La parola ai numeri: produzione industriale

In tempi di grandi crisi, con forti discontinuità nell’andamento di alcuni indicatori macroeconomici, è fondamentale tenere sempre come riferimento i livelli a cui eravamo prima della crisi.
Ieri lÂ’’Istat ha pubblicato i nuovi dati sulla produzione industriale. Anche questa volta la notizia è stata diffusa da molti giornali o telegiornali in modo fuorviante o errato.
Ad esempio Il Tg2 dell’11 ottobre delle ore 20.30 lanciava così la notizia:
“Buone notizie per la nostra economia la produzione industriale ad agosto ha fatto un balzo in avanti del 9,5 per cento rispetto ad agosto del 2009 e dell’1,6 per cento rispetto a luglio. Si tratta del miglior dato annuo dal dicembre del ’97”.
Anche Repubblica.it, pochi minuti dopo la pubblicazione del comunicato, titolava la notizia in modo errato: “Produzione agosto +9,5 per cento sull’anno il dato migliore da dicembre del 1997”.
Oppure la versione cartacea del Corriere della sera che titola così:
“Più macchinari scatto della produzione”. E nel sottotitolo“ per lÂ’’Istat ad agosto è salita del 9,5 per cento il livello più elevato dal 1997”.
Il dato non è il migliore dal 1997, come si può facilmente evincere guardando il grafico 1 costruito sui numeri resi pubblici ieri: la produzione industriale è ancora lontana dai livelli dellÂ’aprile 2008, per lÂ’’esattezza è del 17,1 per cento inferiore rispetto a prima della crisi.
Bisogna poi tener conto che il mese di agosto è statisticamente “ballerino” a causa dell’Â’effetto destagionalizzazione. La destagionalizzazione è “una metodologia applicata allo scopo di identificare e rimuovere le fluttuazioni di carattere stagionale che impediscono di cogliere correttamente l’evoluzione di breve termine dei fenomeni considerati”. (1)
Chi, con l’Â’ausilio dei numeri, volesse capire meglio la situazione, guardi le serie storiche dellÂ’’Istat. Nella colonna dedicata ai dati grezzi il mese di agosto registra livelli molto più bassi del mese precedente: i dati grezzi di luglio 2010 registrano un 99,2 mentre ad agosto siamo a 51,9. Con i dati destagionalizzati, il valore di luglio 2010 è 89,1 che sale a 90,5 in agosto.
Agosto è il mese in cui molte aziende chiudono per le ferie estive e risulta quindi estremamente sensibile all’Â’effetto della destagionalizzazione. Inoltre questo mese di agosto, al pari di quello dell’Â’anno precedente, è diverso dal passato, perché molte aziende hanno dato ferie più lunghe del normale ai loro dipendenti, e perché, purtroppo, non è detto che a settembre tutte le aziende abbiano riaperto .
Per capire meglio lÂ’’andamento della produzione industriale sarà dunque importante aspettare il dato di settembre che è, statisticamente parlando, più significativo. A guardare le previsioni di Confindustria, non sarà particolarmente positivo. Il comunicato, oltre a evidenziare come la produzione industriale sia ancora del 17 per cento inferiore rispetto ai livelli precedenti alla crisi, stima una leggera flessione per il mese di settembre. Previsione che sembra confermata da unÂ’’altra stima dell’Â’Ocse.
Ieri infatti è stato pubblicato anche lÂ’’aggiornamento del Cli, il famoso “superindice” dellÂ’’Ocse, che per mesi è stato utilizzato da televisioni e giornali per sbandierare la ripresa economica. Da quattro mesi il superindice (che prevede con circa sei mesi di anticipo l’Â’andamento del ciclo economico) mostra segnali di flessione. E, come già segnalato da sotto lÂ’’ombrellone, la notizia continua a passare inosservata.
Riportiamo qui sotto la traduzione di uno stralcio del comunicato Ocse.
“Il Composite leading indicator (Cli), ossia il “Superindice” Ocse relativo al mese di agosto 2010, rafforza i segnali di rallentamento della crescita economica già evidenziatisi negli ultimi mesi. Il Superindice relativo ai paesi Ocse scende di 0,1 punti nellÂ’’agosto 2010. È il quarto mese consecutivo in cui lÂ’’indice mostra variazioni irrilevanti o una crescita negativa.
Le previsioni per Canada, Francia, Italia, Regno Unito, Brasile, Cina e India mostrano segnali di flessione. I segnali più forti di flessione emergono per gli Stati Uniti. Per Germania, Giappone e Russia, il Superindice prevede un proseguimento della fase espansiva”.
Nel grafico 2 si può vedere lÂ’’aggiornamento del Cli riferito all’Â’Italia.

(1) Definizione Istat.

La parola ai numeri: lavoro

 

IL REDDITO DEL POLITICO ITALIANO E AMERICANO *

In Italia l’indennità parlamentare annua, in termini reali (misurate in euro 2005), è aumentata da 10.712 euro nel 1948 a 137.691 euro nel 2006, il che significa un aumento medio del 9,9 per cento all’anno e un incremento totale del 1185,4 per cento. Negli Stati Uniti, la retribuzione lorda (in dollari del 2005) è cresciuta da 101.297 dollari nel 1948 a 160.038 dollari nel 2006 (con un aumento del 58 per cento), ovvero in incremento dell’1,5 per cento all’anno. Nello stesso periodo, il Pil pro capite è aumentato del 449,5 per cento al tasso annuale del 3,2 per cento in Italia e del 241,7 per cento, a un tasso di crescita annuo del 2,1 per cento, negli Stati Uniti.
La figura 1 e la figura 2 mostrano per entrambi i paesi un improvviso e sostenuto aumento delle retribuzioni dei parlamentari negli anni Â’60, seguito da un significativo calo negli anni Â’70 (a causa soprattutto dellÂ’elevata inflazione). Ma, mentre negli Usa gli stipendi sono rimasti costanti in termini reali dopo il 1980, quelli dei parlamentari italiani hanno continuato a crescere del 3,9 per cento.
Come si può vedere dai grafici durante la prima repubblica i legislatori italiani risultano sottopagati rispetto ai loro colleghi statunitensi fino alla fine degli anni ’80, anche se il differenziale si è ridotto nel corso di questo decennio. Dal 1994, dall’inizio cioè della seconda repubblica, si osserva il fenomeno inverso. Lo stipendio medio dei membri del parlamento italiano supera quello dei colleghi statunitensi e la forbice si è ampliata tra la fine degli anni’90 e i primi anni 2000.
Alcune considerazioni sono cruciali per comprendere gli andamenti mostrati nelle figure. Mentre il 1948 segna l’alba della Repubblica italiana, a quel tempo il sistema americano era già una democrazia consolidata con una stabile struttura istituzionale. La politica rappresentava già un settore lavorativo ed essere deputato al congresso era un impiego a tempo pieno. In Italia non accadeva lo stesso. Inoltre, è importante sottolineare che, diversamente dagli Stati Uniti, ai deputati e senatori italiani era concesso mantenere le loro professioni durante il mandato parlamentare (fatta eccezione per l’impiego in altre istituzioni pubbliche o private controllate direttamente o indirettamente dal governo e per le occupazioni a tempo pieno). Con ciò si voleva evitare un peggioramento delle loro condizioni economiche, visto che a quel tempo le indennità parlamentari erano relativamente basse. Dopo 1965, il trattamento economico dei parlamentari è migliorato sensibilmente, non soltanto in confronto a quello dei membri del Congresso americano, ma anche rispetto agli stipendi del settore privato in Italia, rendendo piuttosto controversa un’eventuale doppia occupazione. Infatti, nel 1985, l’indennità parlamentare di un deputato o sentore, espressa in termini reali (84.229 euro), era 4,2 volte superiore allo stipendio medio annuo di un lavoratore del settore privato (20.268 euro) e nel 2004 risultava pari a 146.533 euro e quindi 6,5 volte superiore alla retribuzione reale media di un privato (22.712 euro). Eppure i parlamentari italiani possono continuare a ottenere retribuzioni addizionali, oltre all’indennità parlamentare. Questo non è consentito negli Stati Uniti, se non per piccole somme.

* Tratto dal libro "Classe dirigente – L’intreccio tra business e politica" a cura di Tito Boeri, Antonio Merlo e Andrea Prat (Università Bocconi Editore)

MANI PULITE. 15 ANNI DOPO

È in qualche modo cambiata la corruzione in Italia quindici anni dopo le inchieste di Mani pulite? Sì, una novità c’è ed è il carattere “sistemico” del fenomeno. È questa la risposta che fornisce uno dei più noti esponenti della magistratura nel brano che qui pubblichiamo tratto dalla sua prefazione a un libro di Alessandro Galante Garrone, in libreria in questi giorni: “L’Italia Corrotta, 1895 – 1996, cento anni di malcostume politico” (Aragno editore, 147 pagine, 10 euro). Galante Garrone, scomparso nel 2003, lo pubblicò per la prima volta nel 1996, raccontando e analizzando il fenomeno della corruzione con la sua esperienza di storico e giurista, con il suo rigore morale e intellettuale che vede le cose con un pessimismo non rassegnato.

VOLTREMONT E IL CALICE DELL’ECONOMIA

Si intitola “Tremonti: istruzioni per il disuso” il libro scritto da cinque economisti. Passa in rassegna in modo impietoso le affermazioni contenute negli scritti del nostro ministro dell’Economia. E dimostra che le sue tesi e le sue previsioni sono molto spesso lontane dalla realtà di dati, numeri e statistiche. Eppure si tratta proprio di quelle stesse affermazioni che hanno contribuito a rendere il ministro l’intellettuale più influente della attuale maggioranza. Perché allora in pochi finora hanno messo in luce le sue incongruenze?

Un visto per gli studenti stranieri

Il nostro paese ha bisogno di capitale umano per uscire non solo dalla recessione, ma anche dalla stagnazione che l’ha preceduta.  C’è un capitale umano che possiamo acquisire subito. E’ quello dei piccoli numeri, dei talenti che girano per il mondo e che si interrogano oggi su com’è cambiata la geografia del mondo dopo la crisi per decidere dove andare. Pochi innesti di qualità possono significare grandi cambiamenti nella nostra economia. Oggi i 2000 studenti di dottorato stranieri in Italia, in 9 su 10, pensano solo a scappare appena finiti gli studi perché sfiniti dai rinnovi dei permessi di soggiorno, dalle forche caudine cui vengono sottoposti dalle nostre leggi sull’immigrazione. Introduciamo subito un visto per gli studenti (come il J1 negli Stati Uniti) che permetta di risiedere, entrare ed uscire legalmente dal nostro paese per tutta la durata del corso di studi. Deve essere concesso sulla base di una lettera di accettazione dell’università che accoglie il dottorando e che ha tutti gli incentivi ad ammettere solo gli studenti con maggiori potenzialità. A quel punto potranno pensare solo a studiare senza dover frequentare a lungo le nostre questure in attesa di un rinnovo del permesso, che poi arriva immancabilmente quando è già scaduto. Le nostre politiche dell’immigrazione dovranno poi garantire una corsia preferenziale a chi ha studiato da noi e ha una laurea o un dottorato. Chi viene da noi deve già sapere che al termine del corso di studi verrà messo nella stessa condizione degli studenti italiani nel cercare un impiego.

CONTROTEMPO. L’ITALIA NELLA CRISI MONDIALE

Pubblichiamo per i nostri lettori un estratto del libro di Salvatore Rossi “Controtempo. L’Italia nella crisi mondiale” (Laterza, 208 pagine, 15 euro). Anche la crisi ha colto l’Italia e la sua economia in quel controtempo che da anni ci caratterizza rispetto agli altri paesi avanzati. Ma stavolta ai rischi si associano le opportunità. Purché il nostro paese sappia realizzare le necessarie riforme di ordine culturale prima ancora che normativo. E nello stesso tempo rinsaldare e valorizzare i fattori di equilibrio, come l’alto risparmio delle famiglie e la solidità delle banche.

LA VIA FINANZIARIA ALL’AMERICAN DREAM

Un libro sulla crisi finanziaria che è anche una scorrevole lettura per l’estate, tanto che un recensore ha chiosato: “Il racconto è avvincente come un giallo di Camilleri”. Il libro, “I nodi al pettine” (Laterza, 202 pagine, 15 euro), è stato scritto da Marco Onado per ripercorrere eventi e spiegare meccanismi complessi anche al lettore non esperto di finanza. Offriamo un assaggio di queste pagine, preceduto dalla presentazione pubblicata sulla quarta di copertina.

L’ITALIA NELL’UNIONE MONETARIA *

 

Uno sguardo agli ultimi dieci anni mostra che l’esperienza dell’Italia nell’Unione monetaria non è stata univoca. L’euro è spesso utilizzato come capro espiatorio per spiegare l’andamento non soddisfacente dell’economia italiana, ma una valutazione complessiva di come sarebbero andate le cose con l’Italia fuori dell’euro, molto probabilmente porterebbe a concludere che i benefici correlati all’Unione monetaria, in termini di un ambiente macroeconomico e finanziario stabile, superano di gran lunga i costi della perdita dell’autonomia di politica monetaria. Gli scarsi risultati economici dell’Italia derivano da politiche economiche non appropriate a livello nazionale, che non hanno saputo cogliere appieno le opportunità offerte dalla partecipazione all’Unione monetaria.

IL PROBLEMA DELLA PRODUTTIVITÀ

È opinione condivisa che il problema principale dell’economia italiana nello scorso decennio sia stato il notevole e protratto differenziale di crescita potenziale rispetto agli altri paesi dell’area euro, nell’ordine di 0,75 punti percentuali all’anno, ovvero appena sopra l’1,25 per cento dell’Italia contro il 2 per cento dell’area euro. La diagnosi per questa malattia è ancora in gran parte simile a quella raggiunta in un’analisi dell’economia italiana pubblicata dalla Commissione europea nel 1999. Solo rispetto a una delle specifiche debolezze emerse all’epoca si sono registrati notevoli progressi: l’incapacità dell’Italia di sfruttare appieno il suo potenziale di lavoro. Anche se la crescita del paese può essere stata insoddisfacente, risultati decisamente migliori si sono ottenuti in termini di creazione di posti di lavoro, grazie tra l’altro alle riforme che hanno reso più flessibile il mercato del lavoro, in particolare per ciò che riguarda le nuove assunzioni.
Sfortunatamente, il rovescio della medaglia è stato un significativo rallentamento della produttività, con una crescita della produzione oraria scesa dall’1,5 per cento annuo in media nel periodo 1992-98 ad appena lo 0,5 per cento nel periodo 1999-2008. Il positivo andamento dell’occupazione potrebbe essere all’origine del rallentamento della produttività del lavoro, almeno nel breve periodo. Tuttavia, l’evidenza empirica dimostra che il principale colpevole è stato l’acuto e prolungato rallentamento della crescita della produttività totale dei fattori (Tfp).
Si tratta di una componente della crescita economica generalmente associata a un utilizzo più produttivo dei fattori di produzione, ottenuto riallocando risorse verso settori e attività ad alta crescita e assorbendone ogni debolezza, sfruttando meglio le economie di scala e innovando di più. Difficilmente il rallentamento della produttività dei fattori in Italia può essere attribuito alla moneta unica: al contrario, avrebbe dovuto contribuire a rilanciarla, imponendo mercati meglio funzionanti e una più forte competizione. Al massimo, si può sostenere che il nuovo ambiente indotto dall’euro ha portato alla luce le debolezze strutturali che stanno alla base del fenomeno. (…)
Il brusco calo dei premi per il rischio innescati dalla partecipazione all’area euro, del quale l’Italia ha beneficiato in misura maggiore della media dei paesi dell’area, ha agito come un temporaneo shock positivo sul lato della domanda. Sul lato dell’offerta, la decelerazione della Tfp è stata compensata dalla più elevata accumulazione di lavoro, lasciando la crescita potenziale sostanzialmente immutata. L’Italia ha registrato anche una sostenuta perdita di competitività sul piano delle esportazioni, dovuta alla repentina decelerazione della produttività e al rapido aumento della concorrenza dei paesi esportatori a bassi salari. Sebbene quest’ultimo sia in linea di principio uno shock che ha interessato tutta l’area euro, ha avuto un effetto decisamente asimmetrico sull’economia italiana, a causa della particolare specializzazione commerciale del nostro paese. La perdita di competitività esterna si è trasformata in un contributo negativo delle esportazioni nette alla crescita, accentuando così il divario di crescita con gli altri paesi dell’area euro. (…)

LE OCCASIONI MANCATE DELLA FINANZA PUBBLICA

Quanto alle finanze pubbliche, la storia dei primi dieci anni dell’Italia con l’euro è sostanzialmente una storia di occasioni mancate. Nel periodo di rincorsa all’euro, è stato realizzato un imponente consolidamento fiscale e sono state varate importanti riforme che miravano a contenere il debito pensionistico, in modo da garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche nel lungo periodo. Ma una volta esaurita la “carota” della partecipazione all’area euro, si è fatto fatica a proseguire nel consolidamento. Così il “dividendo” dell’euro in termini di minore spesa per interessi non è stato utilizzato per creare e mantenere una situazione di bilancio propedeutica a finanze pubbliche solide. Né il periodo di crescita sostenuta degli anni intorno al volgere del secolo è stato utilizzato per realizzare un aggiustamento strutturale anticiclico del bilancio. E poiché la crescita potenziale non è aumentata come previsto dal governo, il deficit è tornato a crescere e ha superato il tetto del 3 per cento imposto dal Trattato già nel 2001. È stato poi riportato entro i limiti nel 2006-2007 solo grazie a un aggiustamento essenzialmente basato sulle entrate, attuato sotto il “bastone” della procedura per disavanzo eccessivo.

RIFORME STRUTTURALI

La rincorsa all’euro è stata caratterizzata da passi significativi verso la riforma del mercato del lavoro, la liberalizzazione di settori protetti, la privatizzazione delle aziende di Stato e la rimozione dell’eccesso di regolamentazione. Nel mercato del lavoro, il processo di riforma è iniziato con l’accordo del luglio 1993 sulla politica dei redditi, che ha contribuito efficacemente alla moderazione salariale e alla riduzione strutturale dell’inflazione in Italia. Dal 1997 sono state avviate altre riforme che mirano alla flessibilità dei contratti di lavoro dei nuovi assunti, riducendo così significativamente i costi al margine dell’assunzione e del licenziamento. Risultati molto importanti sono stati raggiunti nella riduzione del ruolo diretto dello Stato nell’economia e la riforma delle norme sulla governance societaria è stata un deciso passo avanti nella modernizzazione e nella liberalizzazione del sistema economico. Nel periodo successivo all’adozione dell’euro, tuttavia, la spinta verso le riforme strutturali è diminuita, probabilmente anche perché il “bonus della convergenza monetaria” rappresentato dal calo del premio per il rischio ha ridotto l’urgenza dell’aggiustamento. Con due importanti eccezioni: il mercato del lavoro, nel quale il processo di riforma è stato portato avanti con la cosiddetta legge Biagi, e il settore finanziario, dove la Banca d’Italia ha promosso serie riforme della regolamentazione che hanno prodotto una maggiore contendibilità nel sistema. In altri settori, molte riforme si sono fermate allo stadio iniziale, per esempio la riforma della pubblica amministrazione, oppure si è seguito un approccio frammentario e non complessivo, come nel processo di liberalizzazione dei mercati dei servizi e dei prodotti nel 2006-07. Quanto alla sostenibilità di lungo periodo delle finanze pubbliche, il risultato della riforma non è stato univoco: per esempio, nel processo di riforma del sistema pensionistico si è registrato qualche passo indietro.

* Il testo è un estratto del libro di Marco Buti Italy in Emu: The Challenges of Adjustment and Growth, 2009, Palgrave MacMillan, riprodotto per gentile concessione di Palgrave MacMillan – www.palgrave.com.

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