Il divario di genere sul mercato del lavoro ha pesanti conseguenze anche al momento della pensione. Le donne si ritrovano spesso con assegni insufficienti e devono fare affidamento sul partner, con conseguenze sulla propria indipendenza.
Sessanta a cento. Questo il rapporto tra i redditi pensionistici di donne e uomini in base ai nuovi dati pubblicati nel Rapporto annuale 2022 dell’Inps.
Sebbene nel sistema pensionistico non vi siano elementi di calcolo delle prestazioni che differenziano esplicitamente in base al genere, il modello sociale ed economico prevalente genera divari che penalizzano i redditi delle donne.
Come mostra la Tabella 1, ad esclusione della pensione per superstiti (la cosiddetta reversibilità), per tutte le altre tipologie di prestazioni il differenziale è sempre sfavorevole per le donne. Se guardiamo alla distribuzione degli importi invece che all’importo medio, le donne sono sovra-rappresentate tra le classi di reddito al di sotto dei 1500 euro mensili, mentre il contrario avviene per importi maggiori, fino ad arrivare al 71 per cento di uomini tra i pensionati con più di 3 mila euro mensili, come mostrato in Figura 1.
Gli importi meno generosi delle pensioni femminili riflettono la distribuzione delle pensioni per categoria e genere, presentata in Figura 2. Gli uomini sono maggiormente rappresentati all’interno delle pensioni più “redditizie”, ossia quelle anticipate o di anzianità, percepite dai lavoratori che raggiungono il numero di anni di contributi necessario per accedere a queste prestazioni (al momento il pensionamento anticipato è fissato a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne). La metà degli uomini riceve una pensione di anzianità, contro il 19 per cento delle donne. Per le pensioni di vecchiaia i valori sono rispettivamente del 20 e del 26 per cento. Nel complesso, quindi gli uomini ricevono per il 70 per cento pensioni riconducibili ad attività lavorativa, contro il 45 per cento delle donne.
I problemi sul mercato del lavoro si ripropongono nella pensione
Il divario di genere nel trattamento pensionistico dipende principalmente da tre fattori: retribuzione oraria, tempi di lavoro e anzianità contributiva. Tre variabili strettamente legate al mercato del lavoro, che evidenziano come la disuguaglianza di genere abbia una dimensione intertemporale e come le scelte fatte e le circostanze vissute durante la fase attiva di partecipazione (o meno) al mercato del lavoro abbiano una coda lunga.
Per quanto riguarda le retribuzioni orarie, il divario di genere in Italia non è particolarmente elevato (6 per cento) se confrontato con altri paesi, soprattutto a causa della sostanziale parità nel settore pubblico e la forte selezione positiva nel mercato del lavoro (sono le donne con qualifiche più elevate a partecipare), ma si assesta al 17 per cento nel settore privato. Significa che, per ogni euro guadagnato da un uomo, una donna riceve 83 centesimi. Questo differenziale ha un impatto sulla pensione, nel sistema retributivo a causa di retribuzioni pensionabili inferiori e nel contributivo a causa di contributi accumulati più bassi.
C’è poi la questione dei tempi di lavoro: le donne lavorano sul mercato in media molto meno degli uomini, sia in termine di numero di anni di lavoro in totale, sia in termine di ore lavorate durante l’anno. Concentrandoci su questo secondo aspetto, i dati del Rapporto testimoniano che circa un terzo delle occupate lavora con un contratto part-time. Di questi due milioni di occupate in part-time, circa due terzi vorrebbero lavorare più ore, ma non possono farlo per mancanza di opportunità di lavoro full time o per l’impossibilità di conciliare il tempo per la famiglia e quello per il lavoro. Il risultato è che gli uomini lavorano circa il 15 per cento (300 ore) in più delle donne ogni anno.
Infine, per ragioni legate soprattutto alla maternità e alla cura della casa e della famiglia, le donne tendono ad avere carriere contributive discontinue, con pesanti conseguenze sull’assegno pensionistico e sulla possibilità di anticipare il pensionamento. Nel 2001, l’anzianità contributiva delle pensionate era in media del 40 per cento inferiore rispetto agli uomini. Il divario si è ridotto al 25 per cento nel 2021, segnalando la traiettoria corretta nella partecipazione femminile al mercato del lavoro, ma rimane ancora molto alto: in media, le donne che vanno in pensione hanno 350 settimane di lavoro –oltre sei anni e mezzo- in meno rispetto agli uomini.
L’aumento nella partecipazione femminile al mercato del lavoro rimane la chiave per una riduzione dei differenziali di genere nei redditi pensionistici e nei redditi in generale. Ma quanta consapevolezza c’è su questo fronte?
In uno studio in corso su dati tedeschi abbiamo chiesto a un campione rappresentativo di cittadini quale pensano sia il differenziale di genere nei redditi di lavoro e nei redditi pensionistici. Dall’analisi emerge chiaramente come la penalizzazione delle donne sia in età lavorativa che nel periodo di pensionamento percepita dagli intervistati sia inferiore rispetto alla realtà. In Germania il differenziale di genere nei redditi di lavoro è il 34% e nei redditi pensionistici è attorno al 37% (quindi leggermente inferiore rispetto a quello italiano), ma in media gli intervistati collocano questi gap tra il 10 e il 12%. Fornire loro una corretta informazione serve a modificare la percezione degli individui sulla gravità o serietà del fenomeno, in particolare se l’informazione riguarda sia i redditi di lavoro che quelli pensionistici e non ciascuno singolarmente. In altre parole, se so che i minori redditi di lavoro di oggi si tradurranno in minori redditi di pensione domani, è più probabile che affermi che la disuguaglianza di genere nei redditi sia un problema. Ma questa informazione non necessariamente riesce a modificare l’accordo o il disaccordo sull’adozione di misure d’intervento/di politiche pubbliche che correggano o migliorino la situazione di partenza. In particolare, solo le donne si esprimono a favore dell’adozione di politiche che favoriscano la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, dal rafforzamento dei servizi per l’infanzia, all’adozione di incentivi fiscali per il posticipo del pensionamento. E se ponessimo le stesse domande in Italia?
Questo articolo è uscito in contemporanea su Domani.
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